118. La videointervista a LIUBA by Egle Prati

Otto o Nove mesi fa ricevetti una telefonata (o una email non mi ricordo!) da parte di Egle Prati. Mi disse che stava lavorando a un progetto e a un sito dove voleva raccontare le vite e le esperienze degli artisti andandoli a trovare nel loro studio e instaurando delle conversazioni-interviste. Mi chiese se poteva venire da me, ed io accettai con entusiasmo, poichè mi diverto molto con queste cose!

 

Così un bel giorno – ero da poco rientrata da New York e stavo preparando la performance collettiva di Genova – Egle venne in studio, armata di telecamera, amicizia e allegria. Mi trovai molto a mio agio, parlammo di tutto, del senso di fare arte, della vita dell’artista, del senso che dò al mio lavoro, dei progetti in corso, delle difficoltà e delle curiosità, Egle dialogava, faceva domande, interagiva, ma non rientrava mai nella ripresa, e la videocamera era puntata fissa a tal punto che te ne dimenticavi e reagivi con estrema naturalezza. Ci siamo divertite moltissimo, e sono venute fuori molte ore di conversazione e registrazione. Brava Egle, e grazie!
Ecco qui quindi la videointervista

 
 

 

 

Come so benissimo, il lavoro del montaggio è lungo faticoso ed estremamente lento. Sono passati molti mesi, Egle mi diceva che c’era così tanto materiale che era difficile tagliare e fare un video con una durata e un ritmo ottimale alla visione, specie dal web. So bene cosa vuol dire fare scelte continue, nello scremare ore e ore di materiale per ottenere un video sintetico di una decina di minuti o anche di meno. E’ una delle maggiori difficoltà che anch’io incontro nella realizzazione delle mie opere video. La cosa più difficile è scegliere cosa togliere, quando il materiale è buono. E’ una fatica immane scegliere cosa scartare e motivare cosa tenere e come montarlo, per cui ho profondamente capito Egle quando mi diceva che aveva bisogno di molto tempo perchè il lavoro era molto faticoso.
Ieri però la sorpresa: il video è pronto e pubblicato. Sono stata molto felice perchè lo trovo davvero un bel lavoro, e pure un po’ narcisisticamente compiaciuta di essere venuta bene in video!…

Buona visione

117. La performance 4’33” Chorus Loop

4’33” Chorus Loop, performance collettiva per coro di persone assortite, 4 performances in 4 giorni, Flash Art Event, Milano, © LIUBA 2013

 

 

Ho concepito questa performance per parlare del silenzio, o meglio per farlo vivere. Silenzio perchè siamo in tempi in cui, a mio avviso, la scelta migliore è stare in silenzio, raccogliere energie e meditare e ho deciso di fare una performance collettiva in cui il pubblico partecipante potesse vivere il silenzio, provare empatia per gli altri, esperimentare gli effetti interiori che un silenzio prolungato, dal quale per accordo non si può uscire prima del tempo, genera nella propria anima e psiche. Mi sono ispirata al famoso pezzo di John Cage 4’33”, declinandolo in chiave performativa – partecipativa, pensando a un coro di persone che esegue insieme un tot di volte il famoso brano. Il che vuol dire un silenzio di 4 minuti e 33 secondi ripetuto in loop almeno 3 volte, ossia circa 13 minuti di silenzio da eseguire e rispettare.

 

Coloro che desideravano partecipare alla performance dovevano sottoscrivere un patto con me, nel quale si impegnavano a rimanere nel coro della performance per tutta la durata del silenzio, e a scrivere su carta le loro impressioni alla fine della loro esperienza. In cambio io ho donato a ciascuno un attestato di partecipazione alla performance.

 

 

La performance è stata molto intensa e si è ripetuta per ogni giorno della Fiera di Flash Art, nello stand di Visualcontainer dove era in corso la personale delle mie opere fotografiche e video.

 

 

 

Patto di partecipazione

 

 

 

Performances (photos Mario Duchesneau)

 

Un coro di persone assortite che sono rimaste in silenzio per decine di minuti, e dove il patto di partecipazione, che le persone hanno dovuto sottoscrivere per partecipare, implicava l’impegno a non lasciare la performance prima che fosse finita e a scrivere le proprie riflessioni ed emozioni dopo che fosse finita. Ciò che mi interessava, e mi interessa, è usare la performance come ‘strumento’ per un lavoro su sè stessi che le persone sono stimolate a provare.

 

La tensione che si è creata fra i partecipanti e me, che guidavo il coro, fra i partecipanti fra loro e fra i partecipanti e il pubblico, è stata molto emozionante intensa e curiosa.  Il pubblico guardava in silenzio, noi che performavamo in silenzio, in un incrocio di sguardi, di occhi, di osservazioni, di tempi e di quiete, in mezzo al turbinio della fiera. Un rapporto e una fusione tra guardante e guardato, osservante e osservato, performante e spettatore, che ha contribuito, nella sua maniera sottile e discreta, a volgere l’attenzione, almeno per una volta, verso l’interno e non l’esterno di noi stessi.

 

 

E questi di seguito alcuni commenti dei partecipanti, commenti che compongono una installazione insieme col leggio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per chi vuole ecco la presentazione del progetto, come era presentata nel catalogo della mostra.

 

 

Questo progetto implica la partecipazione del pubblico.
In questa fase della società e della ricerca artistica, mi interessa che l’arte e la performance diventino uno strumento ad uso del pubblico, uno strumento che possa aiutare le persone a indagare dentro sé stessi e a mettersi in gioco.
In particolare, questa performance si focalizza sulla capacità di stare in silenzio, in quiete e in piedi, per un periodo abbastanza lungo di tempo, provocando nelle persone che vi partecipano diverse emozioni e diversi modi di viversi questa sfida. Costruire questa performance dà alle persone la possibilità di lavorare su sé stessi e sulla meditazione.
Per questo motivo ho scelto il famoso brano di Jonh Cage 4’33” declinandolo in maniera performativa e collettiva e facendolo diventare qualcosa di nuovo e di paradigmatico del tempo in cui stiamo vivendo.
In un periodo di crisi e di implosione, come quello in cui siamo, un coro di persone che performano in silenzio, diventa icona e simbolo di questo stato di implosione e di mancanza di parole, ma anche terreno fertile per ritrovare dentro di sé le motivazioni e le forze per una successiva ripresa e rinascita.  Inoltre, stare in silenzio davanti a un pubblico guardante si presta molto bene per riflettere ‘introspettivamente’ su sé stessi, facendo in modo che la performance diventi un terreno di ascolto di sé e delle proprie emozioni. 

La semplice ripetizione del pezzo in loop è un elemento fondamentale del progetto, poiché causa un allungamento del tempo da passare in silenzio, diventando anche una sfida di resistenza e di ascolto da parte dei partecipanti e da parte del pubblico.

 

 

 

 

116. Riflessioni dopo il Flash Art Event


Ho lasciato passare del tempo, dalla mostra al Flash Art Event, (v. post col comunicato stampa) perché avevo bisogno di metabolizzare, di riprendermi, di capire e di curarmi. Non so se quello che ho intenzione di scrivervi vi sarà di giovamento oppure si torcerà contro di me, oppure sembrerà inopportuno. Non lo so bene, ma so che desidero in questo diario raccontarmi, e raccontandomi essere onesta, ed essendo onesta aprire pagine del proprio essere che gli altri possono condividere, facendo vedere qualche piega magari oscura, che contrasta con ciò che si percepisce da fuori e che percepiscono gli altri. E poi, non so se per presunzione o meno, vorrei che il condividere ciò che provo, e anche le difficoltà di una vita gestita cercando di dare il meglio di sé nell’arte e al tempo stesso cercando di convivere con i normali problemi della sopravvivenza, possa essere se non di aiuto, almeno di conforto a qualcun altro, alle prese con le stesse difficoltà.

 

Perché di difficoltà si tratta. Ho fatto questa mostra personale per il Flash Art Event di febbraio, preparandola con la gioia nel cuore e con l’emozione che spesso capita per questi eventi, come quella di essere eccitata, e al tempo stesso però sentirsi essere messa alla prova, essere alla ribalta ed essere sotto i raggi x.  Ho preparato questa mostra con sentimenti contrastanti, che oscillavano fra l’entusiasmo e la paura, fra la contentezza e gli ostacoli (v. pozzo e la gioia, le fasi della creazione), per alcuni mesi prima dell’evento, lavorando a più non posso, e come spesso accade, donandomi a tal punto da non aver pensato né a me stessa, né agli altri, né alle incombenze pratiche, né ai banali impegni quotidiani. Ho cercato di mettere tutta me stessa nella realizzazione di una serie di opere fotografiche nuove (The Finger and the Moon #5 – Serie di Polittici tratte dalle performance del progetto The Finger and the Moon) e di una nuova performance collettiva con la partecipazione del pubblico.

 

Ho adorato lavorare in sinergia con il curatore Mark Bartlett per la realizzazione dei nuovi lavori, e con la gallerista di Visualcontainer per le decisioni di comunicazione e logistiche, mi sono spaventata per i costi di produzione delle opere, che non avevo ma che decisi di affrontare per dare il meglio di me (e quindi permettendomi, al contrario di altre volte, di produrre lavori grandi), e insomma stanca morta ma soddisfatta e con tutto pronto a puntino arrivo al giorno dell’opening (possiamo dire che come spesso succede le ultime cose sono state finite solo alcuni momenti prima che il pubblico arrivasse) e comincio subito a sentirmi a disagio. Mi rendo conto che non so bene cosa fare e come comportarmi.

 

Avevo una voglia esorbitante di parlare dei lavori, di tutti i progetti che ci sono dietro, di conoscere le persone, ma per una sorta di pudore, di timidezza e di convenienza di ruoli, pensavo che fosse molto meglio che lo facesse la gallerista, inoltre ero molto agitata per il fatto che desideravo intensamente una vendita, sia per ripagarmi di una parte delle spese sostenute per questo progetto che dura da anni, sia per una gratificazione banale quanto necessaria: se qualcuno paga per quello che fai vuol dire che ti accetta in pieno. E, siccome ahimè ho sempre venduto poco, questa volta ne avrei avuto davvero proprio tanto bisogno.
Certo che sapevo bene che è il momento peggiore, che c’è la crisi e bla bla bla, ma come spesso mi capita avevo proprio deciso di andare controcorrente, dicendomi: quando tutti si lamentano e si piangono addosso, io invece di lagnare mi butto e mi metto ad investire di più del solito. E questo decisi di fare, ma forse senza rendermi conto dei rischi che mi prendevo (per non dire del fatto che a prendermeli sono stata da sola, essendo stata spalleggiata sul lato concettuale ma non sul lato pratico). Quindi insomma, con tutto sto bagaglio e con tanta ansia, gioia, indecisione, stupore, goffaggine, mi sono vissuta il giorno dell’opening, fino alla performance.

 

Poi, come al solito mi accade, come per incanto e per magia, durante la performance, compresa la parte preparatoria col patto di partecipazione del pubblico, sono stata d’incanto. Perfettamente a mio agio, perfettamente e profondamente me stessa, perfettamente padrona della situazione, godendomi la performance e, per fortuna, facendo godere anche gli altri. Certo, sono abituata:  a volte nella vita normale mi sento goffa imbarazzata e a disagio, e poi nella performance ritrovo ciò che più profondamente sono, la vera me stessa, e tutto sembra assoluto, senza difficoltà, perfetto e come deve essere. Per tutti i giorni successivi della fiera è andata così: fatica, disagio, timidezza, pudore, fintanto che arrivava il momento della performance e tutto si dissolveva, facendomi stare di nuovo bene.

 

Non sono riuscita però a fregarmene di tutto e di tutti e arrivare alla fiera solo per la performance, per cui arrivavo più o meno per l’apertura e ciondolavo a volte come un’ameba, stralunata del successo del pubblico che i miei lavori riscontravano, della fila allo stand per vedere le foto e i video (ce n’erano tre che si succedevano su un monitor), contenta ma tesa, cercando di captare cosa sarebbe potuto succedere di positivo, oltre a tutti quegli elogi e quella estrema visibilità. E non successe praticamente niente. Non che non mi facessero piacere gli elogi e il, come si può dire, ‘successo’, da sempre credo che un artista prenda sul serio ciò che fa perché desidera incontrovertibilmente comunicare in profondità con gli altri, però a volte accade che non ti basta. E ti trovi anche a scoprirti arrabbiata che tutto ciò non ti basti più.

 

Finita la fiera sono scoppiata in una grande crisi, ritrovandomi con tutta la vita da riprendere in mano, con tutti le cose pratiche, gli impegni, le relazioni, i pagamenti che avevo trascurato, cercando di riprenderne il filo e di mettermi a pari, e al tempo stesso ritrovandomi lo studio occupato dai grossi lavori nuovi, esposti e prodotti per la fiera, che poiché invenduti sono ritornati indietro impacchettati. Mi sono sentita un verme. Tutta sta fatica, spese, spremiture fino all’osso, per pochi giorni di mostra e poi rimettere le opere nella plastica a bolle e nasconderle al mondo nel mio studio, dove tra l’altro mi ingombrano poiché ho lo studio nell’appartamento dove vivo e poiché colmo di opere di varie altre fasi e mostre e tempi. Certo, alcune opere sono uscite da quello studio, destinazione gallerie, acquirenti eccetera, ma troppo poche per sentirmi leggera, e perché il peso delle opere di tanti anni non si faccia sentire da tutte le scatole, le pareti e gli anfratti dove sono nascoste.

 

Non che mi penta di aver prodotto quelle opere, e ora non è che siano buttate al macero, esistono e insieme a gallerista e curatore si vedrà cosa farne, però è frustrante sentire di perdere pezzi di carne, sangue tempo e vita per anni e anni e anni e sempre dopo una mostra ripiombare nella fatidica domanda del senso del fare queste cose e del perché e chi te l’ha fatto fare, e paradossalmente una parte profonda e perversa di noi stessi soffre di più in diretta proporzione all’apprezzamento del proprio lavoro.

Perché ti senti davvero solo, solo con il tuo apprezzamento, che non ti serve per pagare le bollette di casa, per aiutarti ad andare avanti, per motivarti davvero a continuare, perché ti senti solo a scegliere stupidamente di investire energie tempo soldi fatiche momenti anni sangue pensieri emozioni convinzioni in qualcosa così effimero come un’opera d’arte che non sai mai se sarà vista, e se sarà vista non sai che senso ha che sia vista, e così pure  per la performance, dove la gratificazione è immediata, e ripagano gli sforzi gli abbracci e i grazie delle persone, ma quanto spesso ti senti sola nel portare avanti questo fardello, nel mettere in gioco tutto, quando gli altri spesso non fanno altro che stare lì dal di fuori a dare i giudizi. No, a volte non è proprio facile, né piacevole la vita dell’artista, e ci vuole tempra, se mai si riesce a resistere. Checchè ne dicano quelli che incontri dal di fuori che ti dicono: ah fai l’artista, che figata!!

Però non nego che qualche vantaggio c’è, almeno la libertà è qualcosa che nessuno ci toglierà mai, e liberamente in questi giorni ho deciso di staccare per ricaricarmi, per finalmente vivere senza occuparmi delle scelte artistiche da fare, fregandomene abbastanza di tutto e cercando di darmi del tempo per capire perché, nonostante una bella mostra, e un discreto successo, io abbia sofferto come un cane.

 

Alcune immagini della mia mostra nello stand di VisualContainer al Flash Art Event

 

Non so se qualcuno si è riconosciuto in queste parole. Ma mi sono sforzata di tirarle fuori e di mettermi a nudo proprio per solidarietà con questo qualcuno. Raga, anche se magari in pochi, ma siamo nella stessa barca, forse, o no?? Se volete scrivere le vostre storie o i vostri commenti mi farà immensamente piacere!