Ah! Vi ricordò che la mostra e’ ancora visitabile fino al 30 dicembre, per cui chi non fosse venuto ne’ all’inaugurazione ne’ al meet the artist ha ancora tempo per vederla!
Ah! Vi ricordò che la mostra e’ ancora visitabile fino al 30 dicembre, per cui chi non fosse venuto ne’ all’inaugurazione ne’ al meet the artist ha ancora tempo per vederla!
La scorsa settimana abbiamo fatto alla Libreria Antigone di Milano la prima presentazione del mio libro ‘This is the Best Artwork‘ (Campanotto 2023) con #lucapanaro e #cristinaprincipale come relatori. Sono stata molto felice.
E’ stato un evento molto interessante, anche grazie alle competenti e bellissime parole dei due relatori, che conosco da tempo e conoscono molto bene il mio lavoro, e che ringrazio di cuore! Gongolavo interiormente quando ascoltavo cosa dicevano, con analisi acute e profonde, e sapevo pure che tutto ciò che dicevano veniva dal cuore ed era ciò che pensavano veramente sul mio lavoro e sul mio progetto e libro.
Ero anche molto felice di cominciare le presentazioni di questo libro con loro, poichè avevamo presentato insieme anche il mio precedente libro LIUBA PERFORMANCE OBJECTS all’Università di Bologna nel 2018. Una triade perfetta!!
Ringrazio tantissimo Mauro ed Emiliano, della #LibreriaAntigone di Milano che hanno creduto nel mio lavoro, ci hanno invitato a presentarlo e tengono il libro in libreria (assieme al mio libro precedente e all’edizione unlimited con poster del progetto dei rifugiati!). Una libreria davvero interessante che vi consiglio di andare a vedere, piena di titoli interessantissimi, attuali e sfiziosi. E… per comprare il mio libro se ancora non l’avete! 😉
Ringrazio anche il numeroso pubblico presente all’evento, molti venuti in seguito al mio invito e che mi conoscevano personalmente. E questo non è sempre scontato, che le persone si muovano, nella rosa dei loro mille impegni, per venire in un luogo ad ascoltare la presentazione di un progetto, in questo caso artistico, letterario e di vita. Grazie davvero di cuore!
Ecco qui alcune delle foto dell’evento, compreso la foto del mio piccolo Sole – ho desiderato fosse presente anche lui ❤️ con permesso di vedere i cartoni animati data l’ora 😅🤣 – con il librario Mauro prima dell’evento.
Ci vediamo alle prossime presentazioni!
SAVE THE DATE! Amici milanesi, ne approfitto per segnalarvi le prossime due date di presentazione del libro in calendario a Milano:
il 15 novembre alla Libreria Popolare di via Tadino
il 13 dicembre da Chippendale Studio (con piccola sorpresa!).
Ho iniziato l’anno a Ischia, come amo fare ormai da alcuni anni, cullata dal clima mite, dall’aria buona e dall’acqua delle terme.
Anche il mio cruciale, incredibile, benedetto anno 2019, anno in cui è nato Sole, è cominciato ad Ischia, con un primo gennaio memorabile, che ha segnato il buon auspicio di tutto l’anno e di cui ho scritto qui.
Questo 2023 si prospetta proprio un bell’anno. E’ cominciato in maniera più placida di quell’altro, ma con una grandissima serenità e ricolma dei miei affetti fondamentali e di ciò che per me è più importante. Come un rituale simbolico – perchè per me il primo gennaio è la condensazione simbolica di tutto l’anno – ho fatto tutto ciò che è fondamentale per la mia vita e che mi esalta. La spiritualità, Sole e il nostro amore e il mio essere mamma, l’arte, la natura, il mare, le camminate, i massaggi, il trattarsi bene e coccolarsi… non è mancato nulla, e sono molto fiduciosa e anzi certa della bellezza di quest’anno appena iniziato.
Nel 2023 festeggio i 30 anni di arte e performance: il 1993 è l’anno in cui misi in scena la performance ‘La margherita dai petali colorati‘ al Centro d’Arte Masaorita a Bologna. In realtà avevo fatto proprio al Masaorita la mia prima sperimentale performance nel 1992, unendo il testo di una mia fiaba (Zucchero e le fragole), coi miei disegni proiettati alle musiche scritte da Nicola Corsi, ma di quella performance non mi è rimasta documentazione se non una foto e il biglietto di invito. Nel 1991 avevo pure partecipato a una collettiva di mail art, ma ho scelto di fissare nel 1993 l’anno del mio ‘debutto pubblico’ nel mondo dell’arte.
Da lì molta acqua è passata sotto i ponti e mi siedo da soddisfatta spettatrice a guardare ciò che è successo e il mondo che ho costruito col mio lavoro, assaporando saggiamente le gioie di sentirsi su delle fondamenta che ho a poco a poco costruito, e la certezza di poter su queste continuare a costruire castelli.
Trent’anni sono un buon spartiacque, si può sostare un po’ guardando la strada che si ha percorso e da quell’altura guardare al futuro e prepararsi per la continuazione del cammino.
Mi piace l’idea in questo post di fare una rapida carrellata di momenti e di performance salienti, ma senza una organicità precisa, un po’ come mi vengono in mente. C’è stata la primissima fase, negli anni ’90, quella delle ‘performance multimediali’, come le chiamavo, in cui in vari contesti e vari modi univo mie immagini, miei testi, miei gesti, aggiungendo musiche oggetti e spazialità. Ne feci molte, varie delle quali non documentate, perchè allora era piuttosto costoso avere dei cameraman o dei fotografi ed io nè potevo permettermeli, nè ci pensavo sempre a documentare ciò che avveniva nell’attimo del performare.
Di questa fase mi piace ricordare la performance Oltre il limite fatta al Praga Cafè di Bologna nel 1997.
Poi all’inizio degli anni 2000, esattamente nel 1999, c’è stata una svolta: sentivo che fare performances nei contesti del mondo dell’arte mi stava stretto e volevo uscire nella realtà quotidiana, così cominciai a fare performance nelle strade della città, mischiata fra i passanti, che reagivano in diversi modi. La prima performance di questo tipo è stata a Milano, nelle strade cittadine, intitolata Le Mummie Vincenti. In questa performance camminavo imprigionata in due grosse scatole, rendendo in questo modo ‘visibili’ le costrizioni e le gabbie ‘invisibili’ ma reali in cui noi tutti siamo immersi nella nostra vita. Per fare questo tipo di performance ho avuto la necessità di documentarle con il video, per farle fruire anche dopo l’azione, visto che erano per le strade. Poi mi accorsi che il video era interessante anche per documentare le reazioni delle persone e il tessuto delle città, e in questo modo cominciai a usare il video come opera finale delle performance. Per questo primo video mi fu di grande aiuto il mio amico regista-musicista Francesco Leprino, che fece le riprese della performance e con molta pazienza mi diede i primi rudimenti di montaggio, per poter diventare autonoma e montarmi in seguito i video da sola.
Mi interessò così tanto la reazione delle persone che l’anno seguente, per Bologna Capitale Europea della Cultura 2000, feci un progetto per fare questa stessa performance nelle allora capitali europee della cultura. Il progetto, che si chiamava Polypolis (che significa, in greco, tante città) fu scelto e prodotto da Cafe9.net e col mio amico cameraman Ciro d’Aniello partimmo in una mini turnè alla volta di Bruxelles, Praga, Avignone (e Bologna giocando in casa) ripetendo la stessa performance, che ebbe esiti e reazioni completamente differenti, come differenti erano le città e le persone che le abitavano. Ciò si vede molto bene nelle opere video che ne sono scaturite, montate insieme a Ciro, e poi esposte, in una bellissima videoinstallazione gigante alla Salara di Bologna nel 2001.
Nel 2003 incominciai invece ad andare in mezzo alla vita reale negli opening delle mostre, in particolare alla Biennale. Ne Il cieco di Gerico andai all’Opening della Biennale come una normale visitatrice del pubblico, indossando però degli occhiali stuccati di bianco in cui ‘si vedeva’ che io ‘non vedevo’, ma camminavo ‘come se vedessi’… metafora della vita e metafora dell’arte. Ciò che mi sembrava più interessante era questo mischiare la vita con l’arte: io in effetti ero una visitatrice della mostra, ma altrettanto stavo facendo una performance, rendendo ambiguo il confine fra arte e realtà. Poi ho continuato con questa abitudine di andare agli opening come una visitatrice ma performante allo stesso tempo: per esempio nel 2004 a Bologna con Virus dove visitavo la fiera vestita completamente di pallini rossi e appiccicandoli sotto le opere, creando una gran confusione fra ciò che era venduto e ciò che non lo era, divertendo e indignando visitatori e galleristi ( a New York, dove l’anno successivo rifeci la performance, addirittura mi espulsero dalla fiera – nonostante fossi stata invitata da una galleria che stava pure esponendo le mie opere – perchè avevo osato toccare il dio denaro. Ciò si vede bene nel video Virus New York ricavato dalla performance).
E così via, feci varie performance a sorpresa alla Biennale, come Side by Side, The Finger and the Moon #1, This is not a performance art piece, e in vari altri luoghi, come Art is Long, Time is short alla Fiera di Basilea. Nel frattempo continuavo a fare performance nelle strade e in contesti di vita reale: sulla spiaggia di Rimini (Rimini Rimini), per le strade di New York e altre città nel mio ongoing The Slowly Project.
E’ stato molto divertente ma anche molto stancante, perchè per ogni performance, oltre alla spesso lunga preparazione della performance stessa, per montare i video mi perdevo nelle ore e ore di girato che avevo dal mio o spesso dai miei cameraman nascosti, e la realizzazione dei video delle perforamcne è stato sempre per me un lavoro faticosissimo e molto lungo, seppur pieno di soddisfazione e piacere. Oddio, avrei in un certo qual modo sempre sognato di trovare un alter ego che montasse i video per me, ma era impossibile perchè per creare un video bisogna modellare il materiale che si ha come fosse una scultura, sì un po’ come il blocco di marmo di Michelangelo: si comincia con un grosso blocco informe (e per il video: con decide di ore di girato, molte delle quali magari mosse o imperfette dato che sono fatte di nascosto e non in un set) per plasmare, modellare, togliere, strutturare a poco a poco. E da uno stesso girato possono uscire mille video differenti. Per quello che devo farli tutti da sola, sudando 7 camicie!! (forse se avessi ingaggiato un bravo regista avrebbe fatto prodotti migliori dei miei, ma io sono ancora per un lavoro artigianale ed eseguito personalmente, anche se si tratta di lavoro digitale.)
Per chiudere il discorso, vi rivelo che ho nel cassetto ancora molte riprese di mie performance delle quali ancora non ho montato o non ho finito i video! Insomma, il lavoro non mi manca per i prossimi vent’anni!
A un certo punto ho cominciato a fare performance partecipative e collettive. Già nei lavori precedenti le reazioni del pubblico e le altre persone erano oggetto del mio interesse e uno dei perni del mio lavoro. Poi decisi di coinvolgere le persone direttamente nelle performance, per far diventare le persone attive e non passive nella fruizione di un’opera. Mi interessava creare dei meccanismi in cui le persone potessero entrare e mettersi alla prova, attraverso il loro corpo e la loro partecipazione alla performance. Fu così che nacquero lavori come The Finger and the Moon #3 con la partecipazione di persone di varie fedi religiose al Museo S. Agostino di Genova, la serie delle performance con e sui rifugiati realizzate a Berlino e in Italia, o i tanti ‘ciechi di Gerico’ che camminavano senza vedere in Tiresia Marittima, un progetto parte di una mia mostra personale realizzata nella mitica Galleria Marconi (che ora ci manca tanto perchè non esiste più).
E poi cosa ho fatto? ho fatto una cosa straordinaria!! Ho fatto un figlio!!!!!!!
La mia opera migliore, my Best Artwork. A lui ho dedicato la mia performance This is the Best Artwork, realizzata durante la mia gravidanza alla Biennale di Venezia del 2019.
Da lì in poi ho adorato fare la mamma ed occuparmi soprattutto del mio Sole… e poi c’è stato pure il Covid, che cancellò parecchi appuntamenti, come per tutti, ma che mi lasciò serena e tranquilla ad occuparmi del mio bambino.
Ora arrivo qui, a festeggiare i trent’anni di attività, con un pochino di orgoglio nel cuore e pronta, oltre che a riposarmi un po’, a riprendere la mia attività con più entusiasmo che mai, con l’uscita di un progetto a cui tengo tantissimo e covato con amore negli ultimi 3 anni, pronto a nascere e spiccare il salto! (Stay tuned!!)
In questo periodo di quarantena continuo con la pubblicazione online di mie opere video integrali, realizzate in anni precedenti, ma in tema con la situazione in cui stiamo vivendo. E’ ora la volta della trilogia di Virus.
Parola chiave del momento, la serie di lavori VIRUS, iniziata nel 2004, rende concreti e visibili, in maniera provocatoria e ironica, i meccanismi sociali e individuali della bulimia dell’acquisto e della mercificazione del mercato, che si avverte non solo nel mondo dell’arte ma anche nella vita quotidiana – concetti che la recente situazione ci sta costringendo a ripensare.
Il primo video della serie è tratto dalla performance realizzata all’Opening di Arte Fiera a Bologna nel 2004.
Virus, 2004 from LIUBA on Vimeo.
Dopo la performance Virus ad Artefiera a Bologna nel 2004, nel 2005 sono stata invitata dalla Galleria Weisspollack di New York, con cui allora collaboravo, a portare quel lavoro al Sofa Fair a Manhattan, facendo una nuova performance ed esponendo la videoinstallazione col video Virus.
La performance Virus New York ha avuto esiti completamente differenti da quella realizzata a Bologna, e implicazioni aggiuntive, ben visibili nella videoinstallazione che mette a confronto i due relativi video, mostrata l’anno successivo nella mia personale a New York da Weisspollack Galleries (e curata da Irina Zucca Alessandrelli).
A New York la performance ha portato stupore, allegria, curiosità e rifiuto… reazioni divertite, complici ed entusiaste, ma anche galleristi arrabbiati, confusi, terrorizzati di non vendere. La performance infine è stata interrotta dallo Show Management e sono stata espulsa dalla fiera.
Il video inizia a ritroso con questa espulsione (le riprese erano proibite e sono state fatte di nascosto dalla mia fedele cameraman), che rende sempre più sottile e ambiguo il confine tra realtà e performance, e col paradossale dialogo sull’onnipotenza del dio-vendita e del dio-denaro negli Stati Uniti.
LIUBA, Virus New York, 2005 from LIUBA on Vimeo.
Virus Tableaux Vivant è stato invece realizzato al Flash Art Fair a Milano, con la collaborazione della galleria Placentia Arte. Il lavoro utilizza il bagno, la vasca, l’idea di spiare o introdursi nello spazio privato. Questa volta il virus dell’acquisto si è sparso contagiando tutto l’ambiente e il mio corpo di donna, ironico simulacro di una vendita e di un acquisto sulla persona, sul/del corpo femminile.
Tanti sono i virus che galleggiano invisibili nell’aria…
LIUBA, Virus Tableaux vivant, 2004 from LIUBA on Vimeo.
More info sul progetto VIRUS
Sono arrivata al post 200! ❤️ Ho cominciato come resoconto del mio trasferimento a New York per l’arte per descrivere dal di dentro la vita di un artista, aprendo un oblò sulla vita privata e su ciò che c’è dietro le opere.
Ancora oggi sono convinta che non ci siano abbastanza informazioni sugli artisti, questi esseri strani che vivono con l’obiettivo e la missione di esprimersi, di fare opere, di cercare la bellezza, di interrogarsi sul nostro vivere. Per molti un artista è come un animale esotico, poichè in giro ci sono pochi esemplari, e pertanto non si conoscono se non per stereotipi. A questo proposito mi viene in mente il film di Sorrentino ‘La grande bellezza’ dove anche lì le scene che riguardano l’arte e gli artisti sono piene di stereotipi e clichè, a mio avviso piuttosto disturbanti, inutili e poco realistici (mi scuso con chi giudica questo film un capolavoro, ma io non lo amo, se non per la bella fotografia).
Festeggio questo duplice anniversario, dei 200 post e dei 10 anni del blog (v. il post n.1), celebrandolo con un post speciale, con la nuova performance Quarantine Trilogy fatta in casa nel periodo di quarantena e andata in onda live per Corpi sul palco, curato da Andrea Contin. E proprio in questo lavoro unisco il mio essere artista al mio essere mamma ❤️❤️ così come in questo blog unisco la sfera professionale artistica con quella privata.
Allora… in questa quarantena me ne stavo tranquilla ( e impegnatissima) a godermi il mio adorato Sole di sei mesi, con moltissime cose da fare, tantissima gioia di momenti unici, lentezza mia solita del godere ogni momento, qualche ora al giorno, non tutti i giorni, tirata fuori ogni tanto per il mio lavoro creativo, senza scadenze e senza impegni. Guardavo con un po’ di lontananza e quasi di superiorità tutti gli artisti affaccendati a fare lavori sul virus, e pure i non artisti che ora avevano il tempo per fare gli artisti, tutti presi a dire la loro e a mostrare le loro opere in quarantena. Io mi limitavo portare allo scoperto e rendere accessibili online lavori già fatti, che erano estremamente pertinenti a questa situazione, come i video dello Slowly Project, o la serie di Virus, o altri, e a vivere di, diciamo, rendita, con i lavori già esistenti (tutti molto complessi, spesso fra performance e montaggio video mi occorre anche un anno per lavoro, per non parlare di quei video che monto alcuni anni dopo aver fatto la performance…).
Ed ecco che vengo improvvisamente stanata da un sacco di richieste: talk in diretta, autoritratto fotografico in quarantena, nuova performance per la rassegna corpisulpalco. Essendo tutte cose di qualità e venendomi l’invito da amici e professionisti del mondo dell’arte che stimo, ho accettato volentieri, sapendo che, a parte i talk online dove mi sono divertita, era una grande sfida produrre una nuova performance, in casa, in sole due settimane, in questo periodo della mia vita dedicato alle cure del mio baby neonato.
Sono stata orgogliosa di essere riuscita a trovare l’idea e a realizzarla, fra una poppata e l’altra, mettendo nell’opera ciò che stavo vivendo in questo periodo, un affresco di vita quotidiana, scene di famiglia, felicità immensa del bimbo, risate taumaturghe contro il virus, e citando anche la mia performance Virus Tableau Vivant, fatta 14 anni prima nella vasca di un hotel per la Flash Art Fair del 2004 esposta da Lino Baldini.
Sono felice di condividere qui con voi questo lavoro, testimonianza in diretta di un periodo storico speciale e di un periodo personale speciale e straordinario.
LIUBA, Quarantine Trilogy, 2020, web version from LIUBA on Vimeo.
Videostill
Sono di rientro dall’ opening di Artissima. Anche quest anno ho deciso di prendere il treno e andare a Torino – da visitatrice, niente performance e niente esposizioni – per curiosità e aggiornamento, più che per impegni o appuntamenti veri e propri.
E’ sempre difficile lasciare traccia di una performance, un avvenimento che accade in un determinato spazio e in un determinato tempo. I video sono un modo per raccontarla, anzi per me sono nuove opere che sommano alla performance le interazioni delle persone, lo spazio, la casualità – ed infatti sono sempre stati una parte integrante del mio lavoro – ma in questi ultimi anni mi sta interessando tantissimo focalizzarmi sugli OGGETTI che hanno fatto parte di una performance, icona fisica visibile e permanente di un progetto effimero ma mitico, che rimane in vita anche attraverso la fisicità di ciò che è servito per realizzare il lavoro, oggetti adoperati o costruiti su misura per un’azione e proprio per questo capaci di conservarne il ricordo, di poterla raccontare da capo, di essere segno e simbolo di una storia e di un’azione.
Per la prima volta ho iniziato a condividere queste riflessioni con Mark Bartlett, collaboratore ed amico, anzi direi il curatore che meglio conosce il mio lavoro, insieme a Luca Panaro, fra i tanti con cui ho collaborato, conosciuto ai tempi della mia personale a New York nel 2006(clicca qui per leggere gli esilaranti racconti del diario a New York!) e da allora incontrato qua e là nel mondo (o su skype).
Ricordo che eravamo nel backyard di una casa di Londra, dove a quel tempo Mark stava abitando, e parlavamo di una pubblicazione monografica in fieri sul mio lavoro (poi sfumata per motivi editoriali mannaggia!), quando ci venne l’idea di lavorare sugli oggetti per scrivere riguardo alle mie performance… a quel punto, poichè non avevo delle foto con solo gli oggetti, quando sono tornata in Italia decisi di fare un progetto fotografico che si focalizzasse sugli oggetti come fossero sculture, e ci lavorai con attrezzatura studio insieme alla fotografa Veronica Roccoli.
Ricordo che feci il set nella mia casa di Viserba, e che la realizzazione delle foto fu molto divertente, studiandone la postura, l’inquadratura, l’essenza. E mi ritrovai con un corpus bellissimo di foto dei miei oggetti. Poi la mega pubblicazione curata da Mark svanì, e quindi decisi di dedicare a questo progetto un libro d’artista, con il supporto e la cura di Luca Panaro, che mi ha stimolato molto a realizzarlo, e una serie di opere gli OBJECTS POLYPTICS, derivate dal progetto.
E’ così che è nato LIUBA PERFORMANCE OBJECT – il libro d’artista che ho pubblicato con Quinlan Edizioni nel 2017 in una tiratura limitata di 200 copie numerate e firmate. Il volume raccoglie una ventina di ritratti fotografici di oggetti utilizzati durante le mie performance, di cui vengono messe in evidenza le loro qualità materiche e cromatiche, i segni dell’azione per cui sono stati pensati ed usati, come se fossero dei veri e propri indizi. Un testo del caro e bravissimo Luca Panaro, accompagna le immagini. (leggi).
Anche qui, come per la ristrutturazione della casa, come vi ho descritto nel post precedente, la realizzazione non fu per niente facile, e intervallata da vari problemi (spesso nati dalla mia maniacale esigenza di perfezione visiva…) che mi hanno richiesto un costante impegno per molti mesi, dagli accordi con l’editore, allo sponsor, al progetto, alla grafica, con la collaborazione del bravissimo – e maniacale come me per i dettagli – Emiliano Biondelli, alle problematiche di stampa, alle prove colore, alla scrittura e traduzione del testo e delle didascalie, rimbalzando da un posto all’altro, dato che l’editore è marchigiano, il laboratorio di stampa vicino a faenza e il grafico a Milano…
E poichè io alternavo l’essere a Milano e l’insegnamento vicino a Bologna due volte la settimana, dormendo a Rimini, immaginate gli intrecci di viaggi e di appuntamenti solo per realizzare il libro!! Anche qui riscontro che da fuori non si immagina tutto il lavoro che c’è dietro a un prodotto artistico, quale esso sia. Già lo sapevo per i video…per gli inesperti sembra che i video siano le riprese così come nascono nella videocamera, mentre invece a me occorrono a volte anche molti mesi o un anno o più per fare un video completo (ovvio che sono lenta perchè non faccio solo quello, ma davvero è un lavoro certosino e lunghissimo). E pure per il libro ho avuto un bel da fare, prima con l’ideazione e la creazione da sola, e poi con la collaborazione tecnica di tutti gli altri. Certamente io riconosco di essere lenta perchè molto esigente, e non è stato facile doversi relazionare con molti professionisti, ognuno nel suo settore, perchè la gimcana degli impegni di tutti non facilita il vedersi e il lavorare con profitto. Insomma questo per dirvi che la ‘lenta ricostruzione’ dopo la tempesta è stata proficua, fra la casa di Viserba ristrutturata e il libro pubblicato, ma densa di fatica, forse accentuata dal fatto che ancora non ero in perfetta forma psicofisica.
Una volta finito e fresco di stampa il libro però era bellissimo!! e qui è cominciata la parte più divertente, quella delle presentazioni nei musei, al bookshop del Mambo a Bologna, al Museo della Città a Rimini, all’ Università a Bologna, a Bookcity a Milano, ad Art Paris 2018, ospitata, insieme ad altre mie opere e a una performance, dalla galleria Pascal Vanhoecke, a Chippendale Studio a Milano con Luca Panaro, alla prestigiosa Sala Borromini della biblioteca Vallicelliana a Roma, di cui qui sotto potete vedere il video, con Luca Panaro e Sabrina Vedovotto come relatori.
Biblioteca Vallicelliana di Roma, con LIUBA, Sabrina Vedovotto, Luca Panaro, 7.11.2018
Mi ha dato molta soddisfazione il ‘format’ che ho portato in giro e che vorrò presentare ancora: parlare del libro e parlare delle performance presentando su grande schermo parti dei miei lavori video, commentando e raccontando aneddoti di backstage, cosa che diverte molto il pubblico che, incuriosito dai progetti, mi fa sempre molte domande.
Ringrazio di cuore l’editore Roberto Maggiori e i relatori delle diverse presentazioni, fra cui Massimo Pulini assessore di Rimini, il critico e curatore Luca Panaro, la curatrice e storica dell’arte Cristina Principale, il professor Ferrari di psicologia dell’Arte, il critico e accademico Mark Bartlett, la curatrice e critica Sabrina Vedovotto. E’ stato un gran piacere e un gran divertimento fare queste presentazioni del libro e del mio lavoro con tutti voi!!
Per chi fosse interessato, il libro è ancora disponibile all’acquisto > qui
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LIUBA
Sono andata all’Opening della Biennale anche quest’anno. Ma senza fare una performance. A dire il vero avevo proprio un’idea pronta che avevo anche accarezzato di realizzare, idea che ho da molti anni e che, con un sesto senso, mi era venuta fuori da riprendere per questa edizione. Poi poichè ero già abbastanza carica di progetti in corso (una personale inaugurata il mese precedente, un nuovo progetto in dirittura di arrivo e i video dei rifugiati che girano in mostre) ho visto che avrei avuto poco tempo e poca energia per organizzare questa performance, che di per sè è molto semplice, ma come sempre da organizzare lo è un po’ meno.
Sono andata all’Opening della Biennale anche quest’anno. Ma senza fare una performance. A dire il vero avevo proprio un’idea pronta che avevo anche accarezzato di realizzare, idea che ho da molti anni e che, con un sesto senso, mi era venuta fuori da riprendere per questa edizione. Poi poichè ero già abbastanza carica di progetti in corso (una personale inaugurata il mese precedente, un nuovo progetto in dirittua di arrivo e i video dei rifugiati che girano) ho visto che avrei avuto poco tempo e poca energia per organizzare questa performance, che di per sè è molto semplice, ma come sempre da organizzare lo è un po’ meno.
L’idea era quella di andare all’opening con una valigetta, dentro a cui avrei messo un materasso pieghevole. Sono vestita con un vestito bianco tipo camicia da notte, largo e lungo, ma che potrebbe essere scambiato per un vestitone estivo. A un certo punto, nel bel mezzo dell’opening e con le persone che camminano da un’opera all’altra e da un padiglione all’altro, io appoggio la valigetta, tiro fuori il materasso e il piccolo cuscino, e mi stendo a dormire, con ai miei piedi una scritta che dice ‘A volte sono stanca’.
Questa è la mia performance virtuale, ossia pronta nel pensiero e non ancora realizzata. Figuratevi il mio stupore quando ai Giardini, all’inizio della mostra curatoriale, vedo ben tre opere di tre artisti che lavorano su questo tema: in tutti e tre i lavori c’è l’artista sdraiato sul letto o sul divano che si riposa. Pensate che coincidenza madornale, se io arrivavo lì, ovviamente ignara delle opere che sarebbero state esposte, e mi mettevo a dormire, reale e fisica e performativa, proprio accanto alle opere fotografiche o installative degli artisti che riposavano sui rispettivi letti o divani. Che roba! Quando ho visto questi lavori non potevo credere ai miei occhi, e constatare come le energie girano e si captano sottilmente.
Non saprei dire se avessi fatto questa performance come sarebbe stata la reazione delle persone, non tanto alla performance stessa – che avrebbe funzionato benissimo, già lo so 🙂 – quanto per il parallelo con le opere in mostra che aprono, anche esplicitandone gli intenti, la mostra curatoriale della Macel. Avrebbero pensato che io ne ero al corrente e che mi sono allineata al discorso? oppure avrebbero pensato ma che ci fa questa qui con una performance simile a quei lavori esposti? oppure avrebbero pensato che era una performance facente parte della mostra, oppure avrebbero pensato ma che figata, da una parte abbiamo le foto degli artisti che dormono, mentre qui invece, in piena folla dei visitatori dell’opening della biennale, c’è un’artista che davvero sceglie di dormire e di farci capire cosa è più importante… Insomma, le reazioni potevano scalare dalle stelle alle stalle, dal fiasco alla magia. Che poi ebbene sì una magia era bella e buona, perchè questa idea l’avevo quasi da una decina di anni e guarda caso alcune settimane prima della biennale mi riapparve chiara in mente, e necessaria da fare. Solo però che volevo DAVVERO riposarmi, e quindi non ho fatto la performance…
Ma ve lo sto scrivendo perchè questa per me è una performance virtuale, bell’ e che fatta. E il condividerla qui ne sancisce la sua esistenza nell’etere e nell’immaginazione. Forse un giorno la farò davvero, o forse bastano le righe che vi ho scritto qui sopra, ma la performance per me è comunque realizzata, nella sua forma virtuale per ora, che ho condiviso con voi per la sua coincidenza inaspettata e inusuale.
Ora passo ad alcune righe sulla biennale. veloci, sintetiche, smilze. Ne ho parlato tanto con le persone, in quei giorni, e ne ho letto molto in tutte le sedi, quando sono usciti tutti gli articoli e i commenti, per cui ora (visto che mi sono ‘riposata’ ed è già passata più di una settimana dalla fine dei giorni di opening) non necessita che io mi dilunghi in commenti.
La sezione curatoriale della Macel ha avuto per me ondate contrapposte, fra lavori e sezioni che mi sono piaciute ed altri lavori e sezioni che non mi sono piaciute affatto. Devo dire che, sebbene apprezzi l’ intento della curatrice di dare la parola agli artisti e di non prevaricare con una tematica forte curatoriale, dall’altra la suddivisione per tematiche e sotto-padiglioni l’ho trovata didattica e noiosa. Mi è piaciuta la ripresa di artisti non sempre adeguatamente riconosciuti, come Maria Lai di cui era presente un ampio corpus di lavori bellissimi.
Riguardo ai Padiglioni avevo molto apprezzato, prima che si sapesse fosse il vincitore, il padiglione della Germania di Anne Imhof, peraltro avendolo visitato in un momento in cui non c’era l’azione performativa. Mi era piaciuta la poesia e la pulizia di questa installazione di vetri un po’ opachi dove le persone galleggiavano, la prospettiva di questa piattaforma vista dall’esterno del Padiglione e la visione alla quale questa piattaforma dava accesso permettendo di vedere due installazioni sottostanti che davano sensazioni inquietanti ed enigmatiche. Allora non sapevo che il tutto era contemplato con e per la performance, ma il padiglione mi piacque tantissimo. A posteriori, sul web, vidi dei pezzi di video della performance, e devo dire che è la cosa che mi convince di meno (ma avrei dovuto vederla), mentre l’installazione è grandiosa.
Altri padiglioni che ho amato: la Svizzera, col bellissimo e poetico video a due facce Flora di Alexander Birchler e Teresa Hubbard, la Georgia con la fantastica isba vera dentro alla quale piove continuamente di Vajiko Chachkhiani intitolata Living dog among dead lions, il video panoramico di Lisa Reihana per la Nuova Zelanda, qualcosa dei corpi e delle bocche di Jesse Jones al Padiglione irlandese. Bocciati big come l’Inghilterra, gli Stati Uniti (a parte per l’intervento sulla volta centrale), la Spagna e la Francia.
Che devo dire dell’Italia? Si, meglio del solito ( e ci voleva poco…) ma non mi ha del tutto convinto, a cominciare dal titolo… Il mondo magico: ma di cosa? Di magia ne ho vista poca. Casomai inquietudine funerea nell’opera di Cuoghi, e poesia nell’intervento speculare di Andreotta Calo’, il pezzo migliore del Padiglione, a mio avviso.
Grandiose, specie nella fase del montaggio, le grandi mani di Lorenzo Quinn sul Canal Grande, ancora migliori in fase di installazione, più misteriose e magiche che non quando posizionate sulla parete a destinazione finale, in cui il loro senso era fin troppo ovvio.
Non riesco a capire come mai (meglio tardi che mai) il problema dei migranti, del loro sfibrante e pericoloso viaggio per sfuggire a guerre, persecuzioni e violenze, le leggi europee che impediscono di avere documenti se non dove non sei sbarcato (e quindi solo in italia) ecc.. siano diventati pubblici mediaticamente in Italia SOLO ORA, mentre è da anni che c’è questa situazione, e infatti a Berlino il problema dei rifugiati era esploso dal 2012 con la solidarietà di tutte le persone e con la tendopoli dove i rifugiati dormivano e protestavano a Oranienplatz, nel centro di Kreuzberg. Sto terminando il secondo video del progetto coi rifugiati che avevo cominciato a Berlino nel 2013, dove parlo anche di queste cose, con testimonianze reali.
Gli anni scorsi in Italia il fenomeno dei migranti e rifugiati era letto e visto solo come ‘persone che vengono qua a rubarci il lavoro’.
Eppure, dall’altro lato, il governo ha invece fatto e aiutato i rifugiati: ho sentito molte storie in questi anni a Berlino di rifugiati africani che erano sbarcati a Lampedusa ed avevano ricevuto una grande assistenza dal governo italiano, che li smistava anche in alberghi in ogni parte di Italia. Ovviamente questa ospitalità aveva una fine, e poichè il lavoro in italia non c’era (ricordiamoci che il 2013-14 è stato il picco della crisi in italia) cercavano lavoro in Europa.
Alcune persone mi hanno raccontato che avevano trovato lavoro per un periodo in Italia, ma con l’acuirsi della crisi l’avevano perso, quindi avevano pensato di andare via, al nord europa, e moltissimi in Germania. E che succede? si trovavano in Germania come deportati, senza avere diritto ai documenti (che invece in Italia avevano come emergenza umanitaria poichè era il primo paese europeo in cui erano sbarcati) e senza avere il diritto quindi di cercare un lavoro. Fortunatamente per loro Berlino che è la capitale della Germania e la rappresenta, è una città ‘anche’ alternativa, e una parte dei politici ha preso a cuore e difeso i loro casi, mentre altri politici del governo continuavano a sostenere che ‘Lampedusa is in Italy’ per cui il problema dei migranti erano cazzi nostri, come si suol dire. Cosa che ovviamente non è giusta, poichè loro sbarcano a Lampedusa o altrove per venire in Europa e non in Italia.
Addirittura ho saputo che Monti, per cercare di ‘risolvere’ il problema del continuo arrivo dei rifugiati da Libia, Siria e via dicendo (che, ripeto, c’era già allora), ha dato un ‘bonus’ di 500 euro a chiunque volesse uscire dall’Italia, per aiutarli ad andare altrove, e per lavarsi le mani alla Pilato, come d’altronde faceva l’Europa, che ha lasciato si può dire l’Italia sola con questo problema.
Quindi queste persone accettano con gioia il bonus di 500 euro e se ne vanno dall’Italia con la speranza di trovare lavoro in zone europee più ricche, dove i rifugiati sono più tutelati. E che succede? Non solo arrivano in un Paese dove non conoscono nessuno, ma non hanno neanche i documenti validi per restare o per lavorare! Addirittura ho conosciuto molti che dovevano andare in Italia per ‘rinnovare’ i loro documenti, documenti però che in Germania non erano validi.
Ciò ovviamente ha scatenato un caso politico anche in Germania, e le fazioni dei politici si sono divise in due, la via dura e razzista del ‘non li vogliamo’ e la via aperta di chi li voleva aiutare. Ma la legge che consente a un rifugiato di ottenenere i documenti in Europa SOLO nel primo paese in cui tocca terra (Convenzione di Dublino), non è stata ancora modificata.
Quindi strabuzzo gli occhi ora a vedere che finalmente i media italiani si stanno occupando di questa realtà, e di questo problema, ma perchè solo ora, con anni di ritardo?? Purtroppo un paio di anni fa e più, i problemi erano sempre gli stessi, e i nostri politici nascondevano la testa sotto la sabbia facendo gli struzzi e cavalcando l’onda emotiva (che avevano creato coi media) che sosteneva che gli italiani non volevano gli ’emigrati’ che gli rubavano il lavoro. E forse purtroppo solo ora, dopo che le morti nel mediterraneo sono continuate e acuite, anche in Italia si sta facendo luce su questa situazione. E se i media danno le informazioni più o meno giuste, la gente risponde e reagisce (come gli episodi di solidarietà delle persone che stanno accadendo in Italia, e che a Berlino erano cominciati nel 2012) e i politici non si possono sottrarre a prendere decisioni, che possano tutelare tutti, anche i più deboli.
Alcune immagini tratte dalle mie performance fatte con e per i rifugiati.
Dall’alto in basso:
Refugees Welcome, 2013-2014
YOU ARE OUT, 2014,
Senza Tempo (Without Time) 2015
https://liuba.net/projects/refugees-welcome-2/?lang=it
Devo davvero ringraziare Davide Brullo, uno scrittore e giornalista di Rimini, che ha come si suol dire ‘scoperto’ il mio lavoro, e sta pubblicando vari articoli su di me sul quotidiano riminese e romagnolo ‘La Voce di Romagna‘.
Ha cominciato nel 2014 con un articolo che mi ha stupito e commosso, scritto dopo avermi fatto una esaltante e divertente intervista telefonica per approfondire alcuni aspetti del mio lavoro. Ne sono stata onorata.
Poi ha pubblicato un articolo sulla mia performance e video a Fano (v. post precedente), non senza qualche tocco polemico contro l’Assessore e la politica culturale di Rimini, che non mi aveva mai invitato a proporre i miei lavori, pur essendo io di famiglia riminese da parte di madre.
Grazie Davide Brullo per seguire il mio lavoro e per gli articoli!
nell’ambito della rassegna
IN ITALIA
a cura di Luca Panaro e Marcello Sparaventi
Giovedì 11 Giugno 2015 h. 21.00
TAKE YOUR TIME
Performance e videoproiezione di LIUBA
dal ciclo The Slowly Project
a cura di Luca Panaro,
in concomitanza con la Lunga Giornata della Lentezza
Sabato 13 Giugno 2015 h. 16.00
Mediateca Montanari Memo, piazza Pier Maria Amiani, Fano
Proiezione dei 3 video di LIUBA del ciclo
The Slowly Project
Take your time – New York, 2005-2011
Take Your Time – Modena, 2008
Art is Long, Time is short – Basel, 2004-2009
e LIUBA IN CONVERSAZIONE CON LUCA PANARO
con replica della proiezione alle ore 17.
Qui sopra il video della pubblica intervista con Luca Panaro
Sono onorata di essere stata invitata da Nicola Frangione a fare una mia performance per l’importante Festival Internazionale di Performance che lui organizza a Monza. Poichè il problema dei migranti e dei rifugiati ora è sempre più sentito anche in Italia (come sapete io ho cominciato ad occuparmene a Berlino nel 2013 dove c’era un dibattito acceso mentre in Italia non se ne parlava molto), e ha molte valenze sociali e politiche, ho concepito sempre su questa tematica una nuova performance, partecipativa per tutto il pubblico, su questo tema.
Mi sono immaginata che dei tappeti siano le barche gremite di gente in cui i migranti arrivano in Europa, la vicinanza asfissiante dei corpi contro i corpi, e ho fatto stipare sui tappeti tutte le persone del pubblico, chiedendole di non scendere (fuori dai tappeti c’era il mare) per 12 minuti di silenzio, in cui ognuno aveva il tempo di focalizzarsi sulle proprie sensazioni, sulla presenza vicina degli altri, sul viaggio metaforico che stavano facendo insieme ai migranti, sulla compartecipazione del loro destino, ecc… mentre sul muro dello spazio veniva proiettato, in silenzio, il mio video Refugees Welcome con i rifugiati in silenzio.
E’ stato un grande successo, tutto il pubblico ha partecipato con commozione alla performance.
All the pictures: LIUBA, With No Time, 2015, photos from performance (Ph. Mario Duchesneau)
Dopo la non-performance ad Arte Fiera di Bologna (v. post), ho deciso di portare questo lavoro anche all’Opening della Biennale di Venezia, dichiarando che quella che stavo facendo non era una performance (in quanto visitavo la mostra come gli altri), e davo al pubblico dei bigliettini – numerati e firmati – a un pubblico basito e divertito, dove veniva scritto questo assunto, che affermava e negava al tempo stesso la realtà.
Ho impiegato parecchi giorni a scrivere e firmare i 1300 bigliettini, e chi per caso ne conserva uno è molto fortunato/a!
LIUBA THIS IS NOT A PERFORMANCE ART PIECE
Venice Biennale Opening, May 6, 2015
Un’affermazione scritta che mette in dubbio il suo stesso contenuto provoca uno spaesamento nel pubblico, indotto ad interrogarsi sul labile confine tra ciò che la vita presenta e quello che l’arte rappresenta, e al tempo stesso invita a riflettere sulla natura del linguaggio e sul concetto di verità e finzione, mescolandone le carte. Umberto Eco definiva il segno, “la cosa con la quale si può mentire”.
Con la negazione dell’azione descritta dal testo si sviluppa l’esatto contrario di ciò che viene dichiarato nel gesto, accompagnando i partecipanti della performance in un territorio che contrappone due concetti in modo paradossale.
Il riferimento evidente a la trahison des images rivelata già da René Magritte si materializza in questa opera con il tradimento dell’idea di performance artistica, volendo essa interagire direttamente con ciò che appartiene a la réalité.
La metaperformance si basa sulla giustapposizione paradossale dell’immagine e della scritta che la smentisce, ponendo fine al regime della rappresentazione basata sulla somiglianza.
Relazionandosi dunque con le opere di Duchamp e ‘One and three chairs’ di Kosuth, l’incongruità semantica della non-performance si approccia ironicamente alla realtà contingente, decostruendola e inscrivendola in un sistema complesso costituito dall’analisi scientifica del gesto nel suo contesto.
(Irene Rossini)
Sono stata a Berlino più di un mese, e per lo più ho lavorato al nuovo video Refugees welcome, il progetto site specific che ho in corso sulle tematiche dei rifugiati e le loro storie. Potete avere più notizie su questo progetto cliccando qui.
Sono stata contenta perché per la prima volta non ho montato il video da sola come ero solita fare per i precedenti progetti (devo riconoscere che sono in un periodo delicato dove mi è fondamentale lavorare con qualcun altro, almeno per non perdermi nei miei pensieri), ma con l’aiuto di un montatore spagnolo, il supporto di un regista americano e la supervisione di un tecnico del suono italiano.
Questo poutpurri di persone e incontri da provenienze diverse non poteva accadere che qui a Berlino, ed è per questo anche che ho deciso di venire qui a produrre i lavori. E’ da novembre 2013 che avevo scelto Berlino (e non più New York) come luogo ideale per vivere e fare arte. Purtroppo ci sono stati dei forti dolori nel frattempo e delle grandi perdite, che hanno reso questo ultimo periodo davvero il più difficile della mia vita.
A volte ti dicono che le grandi prove della vita vengono per insegnarti qualcosa, oppure per rafforzarti, io posso solo dirvi che sto facendo una grande fatica, a volte sono proprio giù e mi sento sospesa in una bolla di vuoto che non va da nessuna parte e di cui ho paura. Ma poi da qualche parte profonda l’entusiasmo fa di nuovo capolino, l’entusiasmo per la vita e per l’arte, e riesco a procedere per la strada che penso mi sia assegnata (dico ‘penso’ perché non fa giorno che quasi non mi interrogo se sto facendo la cosa giusta o se sto seguendo la strada che devo seguire, e come potete prevedere le risposte sono alterne…!)
LIUBA, Refugees Welcome, videostills, performance @Kreuberg Pavillon, Berlin, 2014
Allora, vi dicevo di questa esperienza sociale e lavorativa berlinese che mi ha dato molta soddisfazione perché innanzi tutto ho condiviso l’entusiasmo per i miei progetti con alcune persone, e il processo di creare qualcosa di bello insieme.
Inoltre, e cosa fondamentale, per quanto riguarda i video ero bloccata da alcuni anni. Il video nel mio lavoro è una parte assai importante, che fa da complemento alla parte performativa, Era dal 2011 che non finivo completamente un video. È impressionante! Ho lavorato a molti progetti, fatto molte performance e mostre, accumulato molto materiale di riprese, ma nessun video è stato finito. Se devo essere sincera mi sono impantanata nella realizzazione del video di The Finger and the Moon #3, al quale sto lavorando da due anni, e pur avendolo finito un paio di volte, non ne sono soddisfatta, per cui il progetto è sempre aperto, non lo ritengo finito e non l’ho ancora esposto ( e a genova stanno aspettando per esporlo!). Poi ci sono state le mie dolorose vicende personali dell’ultimo anno, che mi hanno bloccato ulteriormente, paralizzato quasi. Ora quindi è quasi una conquista aver finalmente ripreso a lavorare al montaggio dei video, e ad avere finito una nuova opera! E sapevo che da ora in poi non posso più occuparmi interamente del montaggio, e che devo cominciare a collaborare con dei montatori.
Così sono doppiamente contenta di aver inaugurato con questo video una nuova fase, che implica la collaborazione di diversi professionisti. Un lavoro di equipe, tenuto insieme dalla mia regia, come succede nei normali film. Mi sento grata a queste persone di aver collaborato con me, e contenta di aver cominciato questa fase collaborativa. Non posso ancora farvi vedere qualche immagine del video, perché manca la correzione colore e la lavorazione dell’audio, anche queste parti che di solito facevo da sola e che ora affido a dei collaboratori professionisti. Ciò mi diverte parecchio, di potermi occupare più precisamente della parte registica e creativa, delegando ai tecnici più esperti di me gli aspetti di loro competenza. E tutto ciò non poteva che avvenire qui a Berlino, città piena e pullulante di giovani (e non) creativi provenienti da ogni parte del mondo. E’ facile trovare collaboratori entusiasti e motivati, oltre ad essere la città sia stimolante, per le proposte, sia tranquilla e lenta, cosa che favorisce la creatività. In questo tempo quindi, a parte qualche evento sociale, o qualche uscita per andare al cinema o a sentire del jazz, o a bere la buonissima birra, ho passato la maggioranza delle mie giornate a lavorare creativamente al video e ad altri progetti, solo inframmezzate dalla ormai abitudine acquisita di correre due volte alla settimana e nuotare una volta alla settimana. Cosa che mi aiuta molto.
Dopo essere rientrata in Italia da Berlino e aver vissuto rimuovendo le vacanze natalizie, arrivò gennaio e il periodo di Arte Fiera a Bologna. Ero così spompata che ovviamente non avevo nessuna voglia di preparare una performance, per cui mi dissi che sarei andata là solo come visitatrice. Poi riflettendo ho capito che anche le altre volte che avevo fatto una performance ero andata là come visitatrice, e magari anche questa volta le persone avrebbero pensato che stessi facendo una performance, mentre non la stavo facendo affatto. E così decisi di scrivere un biglietto dove avvisavo che non stavo facendo una performance (e quindi in realtà la stavo facendo!)
Mi misi così a scrivere centinaia di bigliettini, che avrei consegnato alle persone durante l’opening, avvisandole che “non sto facendo una performance”. Ma l’atto stesso di scrivere i bigliettini e prepararli era davvero una performance!
LIUBA. QUESTA NON E’ UNA PERFORMANCE, Opening di ArteFiera. Bologna, gennaio 2015
L’intenzione è quella di esplorare la relazione tra l’atto performativo e la realtà quotidiana attraverso un gesto che sta accadendo nel momento contingente all’azione.
La metaperformance si basa, infatti, sulla giustapposizione paradossale dell’immagine e della scritta che la smentisce.
La seconda performance con i rifugiati che feci a Berlino, con l’aiuto della troupe di Zachary Kerschberg (v. post precedente), si intitola YOU’RE OUT e prende spunto dal gioco delle ‘sedie musicali’ che si faceva quando si era piccoli: c’è sempre qualcuno escluso perchè non c’è un posto per tutti.
Ringrazio tantissimo tutti coloro che hanno partecipato alla performance, i cameraman che hanno fatto le riprese, Zach e la sua troupe per l’organizzazione e specialmente Dominique Morales che è stata splendida nel fornirci il supporto nel trovare le sedie, il musicista e molti partecipanti.
Ed ecco a voi alcune foto e il comunicato di questa bella performance partecipativa realizzata a Berlino in Oranineplatz, la simbolica piazza che ha ospitato il campo di protesta dei rifugiati per più di un anno.
LIUBA, YOU ARE OUT, Oranienplatz, Kreuzberg, Berlino, 16/11/14
Performance partecipativa per un gruppo misto di rifugiati e cittadini.
In questo progetto, che segue e sviluppa Refugees Welcome Project, LIUBA continua a concentrarsi sul problema dei rifugiati in Europa e sul problema dell’integrazione e dell’accoglienza dei rifugiati. E’ un progetto che riflette anche in generale sul concetto di espulsione da una comunità.
L’idea della performance è quella di giocare un gioco che simbolicamente riflette ciò che accade nella realtà: non c’è sempre abbastanza spazio per tutti. Il gioco è uno di quelli vecchi che molti di noi avranno sicuramente giocato da piccoli, permettendo alle persone di sperimentare, con i loro stessi corpi, la sensazione di essere rifiutate e la lotta per trovare un posto. Fare questa performance è un modo per avere una profonda consapevolezza su questi temi e dinamiche. E’ un lavoro sulla lotta per stabilirsi in un paese e lo sforzo e le possibilità necessarie perché abbia successo.
La performance è concepita per includere come partecipanti gli immigrati e i cittadini, per rappresentare una società multirazziale del nostro tempo e il problema dell’integrazione che i rifugiati devono affrontare quando arrivano in un altro paese.
All’inizio del gioco tutti ballano a tempo di musica. Quando la musica si ferma ciascuno dovrà sedersi su una sedia, ma ci sarà una sedia in meno dei partecipanti, per cui uno di loro sarà escluso. Il gioco continua fino a che tutti saranno esclusi e si ritroverà solo una persona, da sola, nella comunità. La performance finisce con un nuovo giro del gioco con tutti i partecipanti e con una sedia per ogni partecipante: quando la musica finisce ognuno potrà trovare la propria sedia, il proprio posto, e sentirsi a casa.
L’idea di questo lavoro nasce dal senso di frustrazione che proviamo quando vediamo la gente che lotta per avere i documenti necessari per poter stare in un paese, che non sono libere di trovare un lavoro onestamente e sono esclusi dalla comunità. Lo stesso senso di frustrazione viene ogni volta che ci sentiamo esclusi da un gruppo, siano essi amici, familiari, nel lavoro o in un paese.
Nonostante il periodo difficile, come scrissi nel post precedente ho accettato l’invito di un regista americano, Zachary Kerschberg, che mi chiese di tornare a Berlino per rifare la performance Refugees Welcome, alla quale lui aveva assistito a dicembre 2013, da inserire nel film che stava facendo.
Mi ha commosso quando mi ha detto che era al Kreuzberg Pavillon quel giorno di dicembre 2013 quando feci la performance collettiva invitando i rifugiati in galleria, e che quella è stata la cosa più commovente e speciale a cui lui aveva assistito in quella città, e voleva inserirla nel suo film. La sua telefonata è stata musica per le mie orecchie, in un momento della mia vita così doloroso e in cui ero così persa, senza fulcro, senza famiglia, senza appartenenza, e senza sapere cosa avrei fatto e dove avrei vissuto.
Così abbiamo fatto un accordo: io avrei rifatto la performance veramente (ossia l’avrei fatta in uno spazio e per un pubblico e non solo per le riprese del film) e lui poteva filmarla e in cambio mi dava le riprese dei suoi cameraman, da usare per il mio video, e mi avrebbe aiutato ad organizzare la complicata logistica della performance.
Poichè avevo in mente anche una nuova idea di performance collettiva da fare con i rifugiati e a lui e alla sua troupe piacque tantissimo, decidemmo che le avremmo fatte entrambe, e che mi avrebbero aiutato a produrre e organizzare il nuovo lavoro, oltre a farci le riprese.
Che meraviglia e che felicità! Un invito coi fiocchi e una troupe di ragazzi in gambissima con cui lavorare , l’onore di essere cercata perchè il mio lavoro li aveva colpiti, la possibilità di produrre un nuovo lavoro che era nella mia mente… tutto era un segnale perchè io tornassi a Berlino e direi come una coccola in quel lungo periodo di lutto e solitudine estrema che stavo passando.
Certamente non ero molto in forma quando arrivai là, nè molto allegra e in energia nei giorni in cui sono stata a Berlino, è come se tutto fosse più difficile nel mio stato e ho fatto moltissima fatica a lavorare e a concentrarmi, ma le due performance sono venute benissimo e con l’aiuto di Zach, Dominique e tutti gli altri hanno avuto una partecipazione altissima di rifugiati, ovviamente maggiore della prima volta quando andavo in giro per Berlino da sola a conoscere i rifugiati e ad ascoltare le loro storie (v. post 132, 133, 135), anche se abbiamo comunque lavorato sodo in tanti per contattare e coinvolgere i rifugiati che volevano partecipare a questa nuova performance, aiutati da alcuni rifugiati stessi.
Anche questa volta la performance la feci al Kreuzberg Pavillion di Berlino, poichè i galleristi, che avevano creduto moltissimo nel progetto quando l’avevo fatto la prima volta, accettarono molto volentieri di rifare una serata speciale solo per la performance.
Ed ecco alcune foto della nuova performance, e la presentazione.
LIUBA, REFUGEES WELCOME, Performance interattiva e collettiva con i rifugiati e il pubblico, Kreuzberg Pavillon, Berlino 14/11/2014
Questo progetto ripropone a grande richiesta la performance effettuata da LIUBA l’anno scorso e sarà inclusa dal regista americano Zachary Kerschberg nel suo nuovo film documentario.
Il progetto è’ composto da due parti: la performance in galleria, e il precedente e lungo lavoro preparatorio site-specific, consistito nel prendere contatti con rifugiati in protesta a Berlino, nel conoscerli e ascoltare le loro storie e i loro problemi, per poi invitarli a partecipare alla performance in galleria che consiste in 12 simbolici minuti di silenzio in segno dei loro diritti e della loro accettazione.
Alcuni concetti che hanno portato LIUBA a questo lavoro:
Penso che le persone e i loro problemi siano più importanti dei progetti artistici.
Porto delle persone viventi in galleria perchè le persone, le loro vite e le loro problematiche sono ciò che veramente importa adesso.
Raduno insieme persone diverse in uno stesso luogo, perchè ciascuno ha il diritto di stare in quello stesso luogo.
Voglio che le persone stiano in silenzio, osservandosi l’un l’altro. Il pubblico della galleria e i rifugiati. Osservare è il primo passo per conoscere, accettare, rispettare.
Guardare l’altro significa trovare la base comune della nostra esistenza: essere vivi adesso.
Costruisco la performance col proposito di creare esperienze personali per le persone, interiori ed esteriori.
L’arte diventa un mezzo per dare ai rifugiati un modo per essere ascoltati, per essere visibili, per essere rispettati.
Qui a Berlino ho ripreso a lavorare intensamente e parecchio. Ho l’aiuto di una persona che parla italiano che sta per 6 ore con mia madre, occupandosi di lei, così in quel tempo io sono libera di lavorare ai miei progetti.
E tutto sta andando avanti: il video The Finger and the Moon #3, che è finito e di cui ho gestito con un tecnico alcuni problemi inerenti l’rsportazione del filmato HD. Poi sto rielaborando nella parte tecnica anche il video The Finger and the Moon #2, invitato a un festival di videoarte in Baviera quest’estate ( e lo vogliono già da ora). Poi sto facendo un sito nuovo di zecca insieme a una bravissima web-designer developer australiana, con la quale stiamo lavorando molto bene insieme e pure velocemente…non vedo l’ora che sia online!
E’ bellissimo e come un sogno per me stare a Berlino con mia madre. Di solito ero io che per tutta la mia vita viaggiavo, e avevo la nostalgia di loro che erano a Milano, ma io a Milano non riuscivo a starci mai più di tanto. Questa volta ero in viaggio con lei, e lei condivideva la mia vita artistica nel mondo, potevo spartirla con lei, farla partecipe, e vivere al tempo stesso il grande amore per lei e la famiglia e la mia grande voracità di arte e di viaggi. Non mi sembrava vero. E non mi sembrava vero poter vivere con lei, godermela davvero, poichè in tutti questi anni lei è sempre stata in ‘coppia’ con papà e i momenti in cui eravamo in un posto da sole – e ci piaceva tantissimo – sono stati molto pochi.
Non sono mai stata così felice nella mia vita. Una cosa similare, ma meno intensa, fu quando abitai con Mario a New York, dove pur essendo in un paese del mondo per fare arte mi sentivo in famiglia e a casa. Ma con mia madre era una cosa straordinaria. Io e lei insieme. E per la prima volta lei inserita nella mia vita, e non il contrario. Una gioia immensa, e un dono unico, poter essere qui con lei, anche se la logistica non è facile, perchè non posso lasciarla da sola ( e allora spesso me la porto dietro nei posti più impensati, tanto qui a Berlino, non so come, si può parcheggiare dappertutto, anche in centro davanti ai portoni, così la posso scarrozzare ovunque senza farla stancare troppo o prendere freddo).
E, last but not least, sto proseguendo con le riprese e la ricerca sulla situazione dei rifugiati e dei Lampedusa People.
Recentemente è stato sgomberato il campo profughi di protesta ad Oranienplatz. Alcuni sostengono che c’è stato un accordo e un patto fra i rifugiati e il comune, altri, compreso alcuni di loro, sostengono che il patto era più uno specchietto per le allodole e i media, che un passo concreto verso la risoluzione della loro situazione, per cui si è creata una ulteriore resistenza, ed è stato iniziato uno sciopero della pace in Oranienplatz.
Qui di seguito potete vedere un video, fatto appena lo sciopero della fame cominciò ( e montato mischiando velocemente anche dell’altro materiale che avevo archiviato, in attesa di fare un lavoro video più ampio su tutta questa situazione).
(post scritto come bozza in dicembre e pubblicato solo oggi, poichè ci sono stati gravi fatti familiari)
Sono stata davvero fortunata in questo mese a Berlino, non ha mai fatto molto freddo, così ho potuto liberamente uscire, incontrare persone, conoscere i rifugiati, ascoltare le loro storie, andare agli incontri su questo problema, eccetera, molto di ciò anche in bicicletta. Se c’era più freddo non ci sarei riuscita.
Però eccome se mi sono stancata: vai di qui, di là, parla, conosci, supera la timidezza, registra, pensa, scarica il materiale, scrivi email, ecc…
Sabato c’è stata la performance al Kreuzberg Pavillon, commovente, semplice, toccante, interattiva. Tre ragazzi africani, rifugiati e in protesta ad Oranien Platz hanno deciso di partecipare e si sono presentati in galleria. Un ready made umano. Una rosa di sguardi e sinergie. (leggi i post precedenti sul project in progress: 132, 133, 135-con video).
Ho chiesto al pubblico e a tutti i presenti in galleria, di fare 12 simbolici minuti di silenzio, per sintonizzarsi insieme e accogliere nello spazio della galleria i rifugiati, mettendo sullo stesso piano l’umanità di tutti.
Anche se il compito era semplice, per essere eseguita la performance ha implicato un lungo e anche stancante lavoro di conoscenza, relazione, contatto, con le persone, soprattutto coloro che sono sbarcati a Lampedusa, che hanno il problema dei loro diritti come rifugiati in Europa, e che stanno conducendo una pacifica protesta. Molti incontri, parole, scambi, energia, situazioni. Un arricchimento di vita. La performance risultante, la loro presenza in galleria, era solo la punta dell’iceberg visibile di un lungo processo di vita e relazioni.
(v. il progetto e il video della performance qui sul mio sito)
Il solito down post performance poi non l’ho potuto assaporare e assecondare in pieno perchè mi è stato chiesto di partecipare a una trasmissione televisiva di una TV privata con un intervista e un video. In realtà era una cosa che già sapevo, ma che doveva essere la settimana successiva, e a bruciapelo mi hanno chiesto di spostarla all’indomani. Ho accettato perchè sto imparando a usare il ferro quando è caldo, ma dovevo anche prepararmi un po’ ed ero molto agitata, proprio perchè ero stanca stanchissima delle fatiche di tutto il periodo preparatorio della performance.
Sono andata quindi domenica negli studi di questa TV a Wedding, e con mia grande agitazione ho scoperto che in questo talk show quel giorno ci sarei stata solo io come ospite….una incontrollata e inconscia insicurezza e paura si impossessò del mio respiro, e dovetti sudare 70 camice per imporre al mio fisico un po’ di non-scialance e tranquillità, appena appena sufficienti per permettermi di parlare dicendo cose sensate e senza balbettare (che poi essendo l’intervista in inglese, e pur parlando io abbastanza fluentemente, non è così facile dare risposte abili e brillanti in un’altra lingua in diretta televisiva…
Devo confessarvi che, insicura del risultato che è venuto fuori, non ho ancora avuto il coraggio di guardare il dvd della trasmissione che mi hanno regalato… 😉
E così, distrutta e liquefatta, dopo di ciò ho bassi-pressionato per circa per due giorni interi, amebizzando il tempo che non dormivo.
Ed ora eccovi qualche foto della performance “Refugees Welcome” fatta al Kreuzberg Pavillon di Berlino in dicembre 2013.
AGGIORNAMENTO: Per maggiori notizie su questo progetto, che è poi continuato con altre performances e la realizzazione dei relativi video, vedi la pagina dedicata sul sito, nonchè le tante recensioni.
In questi giorni continuo a contattare i rifugiati (molti parlano italiano poichè sono sbarcati a Lampedusa e sono stati lì per parecchi mesi). Storie, emozioni, incontri, persone.
Qui di seguito condivido con voi alcuni stralci del diario di bordo in inglese che sto scrivendo. Quando riuscirò, ho intenzione di mandare alcuni stralci di riprese delle dichiarazioni dei rifugiati e delle loro storie (chi accetta di parlarne) diffondendole per il web e pure per i siti informativi, poichè credo che, in Italia sicuramente, non ci sia abbastanza informazione su ciò che sta succedendo, e di come questa questione sollevi problemi ben più ampi, che la comunità europea e la comunità umana devono risolvere: come accogliere profughi che scappano da cattive condizioni nel loro paese? come accogliere chi deve fuggire per una guerra? (mi domando che ne sarebbe stato di Duchamp, di Man Ray, di tutta una parte dell’avanguardia che è fuggita in America durante le guerre mondiali in Europa…e se non fossero stati accolti? quanta ricchezza in meno per la nostra storia e la nostra cultura!)
Come garantire a tutti la propria dignità? e l’uguaglianza? Tutte queste questioni urgono di trovare una soluzione, o quantomeno di essere discusse, per questo che anche il ruolo di informazione acquisisce importanza, e anche di informazione poetica, per coinvolgere le sensibilità delle persone.
Logisticamente sono molto fortunata: per mia gioia anche se è Dicembre non fa assolutamente freddo, ci sono 7-8 gradi, è grigio e piove un po’, e mi piace questo tempo, mi sento perfettamente a casa, è quello che di solito caratterizza i nostri inverni nel Nord Italia. In più sto abitando in una casa perfetta, a Kreuzberg-Friedrichshan, vicino alla maggioranza dei posti dove devo andare, e pure davanti a un bel parco dove, sempre grazie a un clima accettabile, vado a volte – non sono una fanatica – a correre. Così riesco a prendere la bicicletta e mi muovo per Berlino come i Berlinesi. Ah, con la casa ho ricevuto anche la bici! 🙂 Al freddo sottozero non mi abituerò mai, ogni volta mi sento a disagio, ingoffata dai vestiti, impossibilitata a vestirmi come mi pare (di solito mi vesto da marziano mettendo su tutto ciò di pesante che posso avere, strato dopo strato..!), quasi paralizzata nei movimenti, e anche un po’ nervosa…Per ora quindi mi ritengo fortunata che in questo mese a Berlino non si è mai andati sottozero se non qualche giorno fa, che poi ha anche leggermente nevicato, ma è sparito subito. Altrimenti non so come avrei fatto a seguire tutte le conferenze sul problema dei refugees che sto seguendo, e ad andare ogni giorno a parlare con le persone…
Fra pochi giorni ci sarà la performance dove invece di fare una mia azione ho invitato i rifugiati a venire in galleria, e non posso indugiare!
Ed ecco la continuazione della cronaca dei miei contatti coi rifugiati (v. post precedente 1 e post precedente 2 per le prime puntate)
5. Saturday, December 7, 2013
Appena arrivata a Berlino ho captato subito che il problema di maggior portata e coinvolgimento era quello dei rifugiati che richiedono asilo (molti di loro provenienti dallo sbarco a Lampedusa), della loro protesta, della problematica di queste persone, del rapporto fra le migrazioni, gli stati e la libertà. E’ un problema che mi sta a cuore (e non solo per esperienze personali) e che mi interessa enormemente approfondire, perlustrando il lato umano delle storie di queste persone migranti, e il lato sociale-antropologico che questi problemi comportano.
Quando sono stata invitata a presentare una performance il 14 dicembre in una galleria di Berlino, il Kreutzberg Pavillon, ho deciso che invece di presentare uno dei miei tanti progetti pronti e performance già effettuate, farò un lavoro sul territorio e darò il mio ‘spazio performativo‘ alle persone rifugiate che lottano per i loro diritti. Voglio coinvolgere queste persone a venire con me in galleria standing for their rights e, semplicemente, stare in silenzio, e guardarsi e accettarsi con le persone presenti. Tutti in uno stesso luogo, e tutti con lo stesso ‘diritto’ di esserci.
Mi interessa sempre la vita più dell’arte, e non mi interessa ora presentare una mia ‘opera’ ma dare attenzione a questo problema e queste persone. Potrei definirla un’operazione duchampiana animata: portare la vita quotidiana in galleria, portando le persone e la lotta per i loro problemi, perchè siano ‘viste’, conosciute e quindi rispettate.
Ebbene, questo progetto, essenziale e forte al tempo stesso, semplice da dire, non è assolutamente semplice da fare. Ero già andata a un meeting con persone e attivisti di vario tipo focalizzato sul problema dei rifugiati, e avevo qualche contatto, ma conoscere alcuni immigrati e portarli in galleria non è cosa affatto semplice (e ho solo circa 10 giorni..).
Ricordo la fatica che feci per il progetto The Finger and the Moon #3 che richiese moltissimi mesi per contattare le persone delle diverse comunità religiose in Genova, e fare in modo che gli interessati venissero alla performance (e ne vennero 12, di fedi assortite, che fu già un successo, e la performance fu un momento sublime, per tutti – partecipanti e pubblico -unico, che ora sto cristallizzando in maniera universale in un video…), e fu un lavoro di relazioni, amicizie, comunicazione ed empatia umana di grande proporzioni. Ora si tratta di fare lo stesso… solo con molto meno tempo.
Ieri quindi sono andata in Oranienplatz, dove c’è una tendopoli come presidio di protesta, e con 100 persone che ci vivono da un anno (supportati anche dalla città e dai volontari che garantiscono pasti caldi giornalieri per tutti), a conoscere qualche persona…
Ora vi racconto cosa è successo ieri, l’ho scritto in inglese poichè è parte del processo del lavoro.
1.
As i was approaching to Oranien Platz I decided to turn on my small hd camera to self-filming my arrive to the camp place.
I just shot a few minutes of video while walking arriving there, when i was surrounded by suspicious and angry refugees activists from Africa shouting against me that i was stolen images. We talked, aggressively, for 10 min telling them my purpose to ‘work for them’ giving them my performance space and so on. I also had to explain them my personal experience with foreigners laws and extra-communitaire experiences having with my husband being Canadian. They slow down after a while but they pretended i deleted my short shootings. They didn’t accept that shootings done before meeting them (none of them was in the recording. Only the square and me..).
I finally deleted it in front of their eyes. In this way i was accepted to come after lunch to talk with them.
I went away, sort of confused and touched.
I took a few recordings of the place camp from a far away street later on and from a cafe on the other side of the square.
2.
Both of them liked very much the idea of getting attention on their problems coming to the Art Gallery on saturday 14 with me. Let’s see if they will come. I never know what is gonna happen.
I didn’t take shootings neither asked for it. I was afraid they could be reluctant and they won’t like anymore to talk with me. I thought that I have to do things step by step, and first get their confidence. I really want to help their cause.
Fra le varie cose che ho visto in questi giorni (in cui sto anche molto lavorando al progetto site specific con i rifugiati che ho intrapreso qui a Berlino) voglio ricordare, poichè mi sono molto emozionata, in maniera diversa, una mostra e un concerto.
Una mostra enorme, molto interessante, curata benissimo, ciclopica, dell’artista Christof Schlingensief è inaugurata sabato al Kunst Werke, istituzione pubblica per l’Arte Contemporanea di alta qualità, spazio dalle mille sale e caterve di persone all’opening. Il lavoro di questo artista-regista-presentatore, ecc. ecc. prematuramente scomparso (a 50 anni nel 2010) è fatto di denuncia politica, trasgressione, interazione del pubblico, interventi in urban situations, video e installazioni. Decisamente da ricordare. In Germania era molto famoso. Ho fatto alcune foto col telefono, ma non sono venute granchè, a parte quella delle persone sugli alberi (ho deciso comunque che in generale non mi porto dietro la macchina fotografica nel quotidiano e faccio le foto col telefono, perchè vengono abbastanza bene e la figata è che con drop box le foto scattate vanno online e poi direttamente sul mio pc, senza che devo fare niente…). Ho deciso che tornerò a vederla anche un altro giorno, siamo stati lì almeno un paio d’ore e avremo visto la metà dei video che c’erano e materiali documentativi vari (se dicessi che c’erano 70 video o giù di lì?)
In quei giorni ero andata anche a qualche altro opening, per esempio all’Autocenter, un nuovo spazio ‘cool’ dell’arte berlinese, ma la mostra mi era piaciuta poco, anzi affatto.
Dico ‘arrivo a Berlino per un po’ perchè ancora non so quanto ci voglio stare. Sicuramente non poco, ma la mobilità e l’elasticità mi appartengono così tanto che ormai mi ci sono abituata e diventano un’esigenza.
Qualcuno di voi penserà che io sia miliardaria a muovermi sempre così, invece no, e lo faccio per esistere, per sopravvivere, e per fare l’artista sempre nel migliore dei modi, ma prima di tutto per vivere. E’ da quando ho 18 anni che sono abituata a viaggiare, e da subito imparai come si fa a viaggiare stando bene e spendendo meno di quando si è a casa propria, così negli anni ho affinato una rete di scambi case, ospitalità, subaffitti, sharing e quant’altro, che mi rendono possibile muovermi con facilità e potermelo permettere… (potrei tenere dei corsi in merito: come muoversi nel mondo sentendosi a casa propria e poterselo permettere: qualcuno è interessato?)
Ed eccomi qui, in quella che ritengo essere ora il fulcro d’Europa, e una delle città più internazionali e creative dei nostri tempi. Si sente subito l’energia, e già questo mi fa bene. Ho molti difetti, ma una dote che non mi manca è quella di non subire troppo le cose, di reagire e di avere coraggio: per cui mi sono detta ancora una volta che se stavo in Italia ancora un po’ mi trovavo depressa come un cioccolatino sciolto, e così ho chiuso baracca e burattini, come si dice, ma avendo l’accortezza di avere tutti i salvagenti possibili al mio ritorno (questo è un altro segreto del viaggiare bene e del potersi muovere) e sono partita.
Quando ci si muove spesso, e quando si fanno mostre in diverse parti del mondo, ti capita sempre di avere conoscenti o addirittura amici in diverse parti del mondo (o direi meglio, in diverse parti strategiche del mondo) e quando sono in un posto mi vengono sempre in mente le persone connesse con quel luogo, o a volte ne sono in contatto ancor prima.
Vi dico già che sono stata felice sino alle lacrime di rivedere Gaby, la flautista tedesca con cui feci una delle mie prime performance nel 1993 (La Margherita dai petali colorati al Centro Masaorita) a Bologna: erano 20 – oddio 20! – anni che non ci vedevamo, e in questi vent’anni lei ha continuato a fare la musicista ed io ho continuato a fare l’artista, entrambe siamo un po’ invecchiate, ma sempre gli stessi sogni e la stessa passione ci abitano, e tutto ciò mi rimbombava nel cuore quando ho sentito un suo concerto l’altra sera al Shoneberg Rathaus, donandomi emozioni forte e tanta felicità di stare al mondo e forse tanta nostalgia delle cose che passano, che girano, ma che poi restano e si ritrovano. Se sapessi in anticipo dove andrebbe proposto, mi piacerebbe rifare con Gaby la performance della margherita dai petali colorati che avevamo preparato insieme a Bologna tanti anni fa!
Liupirogi E Pagiopa è un luogo che amo. E’ la casa costruita da mio padre, sopra il terreno e la casa dei miei nonni, è stata sistemata da mia madre, e coccolata e fatta diventare accogliente da me. Vengo qui da quando sono nata, anzi precisamente ho passato qui i miei primi giorni di vita quando, nata in Italia in febbraio, mio padre tornò in Russia a lavorare al progetto per una grossa ditta italiana, mentre mia madre e io neonata andammo a passare i mesi invernali in Romagna dalla nonna, per poi raggiungere mio padre in Russia solo in estate quando il clima diventò più mite (e lo sapevate che poi sono vissuta in Russia, vicino agli Urali, fino ai due anni? Il nome viene da lì!..)
Liupirogi E Pagiopa è il nome che ho dato alla casa quest’anno. E’ un nome nuovo, dove ho sintetizzato i nomi delle persone della mia famiglia di cui qui sento le radici, e che ringrazio. Ci sono dentro: Rossana, Gianni, Pasquina, Giovanni, Liuba, Elio, Picini, Pagliarani.
Inoltre in un dialetto degli Indios dell’Amazzonia le due parole vogliono dire rispettivamente: seme che fiorisce e radici.
Il nome è nato quest’estate perchè ho deciso di aprire questa casa, già accogliente e che accoglie amici e viaggiatori da tutto il mondo, ai miei workshop che tengo e ho tenuto in diversi luoghi d’Italia (eh sì alcuni anni fa, quando ancora non c’erano blog e cose varie, lavorai per il Comune di Bologna, prima e per il Comune di Milano poi, tenendo laboratori per tutte le fasce d’età, centrati sull’arte) e a vari altri eventi artistici da poter godere sulla grande terrazza sul mare, che vorrei offrire alla condivisione con gli altri.
Allora mi sono detta: perchè non giocare in casa? Perchè proporre i workshop in luoghi lontani se qui, dove sto tutta l’estate, c’è una grande terrazza meravigliosa sul mare, che gira intorno alla casa di modo da avere sole e ombra quando si vuole e dove si vede il cielo e il mare? e poi c’è la spiaggia di Viserba a due passi, c’è l’entroterra romagnolo alle spalle, splendido, con una quantità di posti che amo e che desidero condividere, e poi c’è Rimini a poche fermate di bus, dove passeggiare sul molo al tramonto, o divertirsi alla sera per chi lo vuole… E così è nato il programma dei workshop a Liupirogi Pagiopa (v. post successivo con le info).
Sono felice ed emozionata di sperimentare questo luogo e farlo diventare, per alcuni giorni, teatro di incontri, creatività, benessere, dialogo e natura. Sento questa cosa come molto importante, e mettere a disposizione la mia esperienza accumulata negli anni è per me fonte di gioia e di appagamento.
Ah, un ultima cosa: i workshop hanno un costo minimo, che serve per coprire le spese dell’organizzazione, della programmazione, del workshop e della casa. Ma poichè non faccio questa attività a scopo di lucro bensì per poter essere utile agli altri e trasmettere ciò che so e che sono, è anche possibile proporre un ‘baratto’ ricambiando il workshop con uno scambio da decidere insieme. Naturalmente chi volesse può contribuire anche in maniera maggiore, per aiutare questo percorso a svilupparsi!
Anche quest’anno alla Biennale ho deciso di fare una performance a sorpresa all’Opening, e in maniera naturale è stato ovvio portare a Venezia una nuova versione della mia ultima performance collettiva preparata per il Flash Art Event a Milano (v. post), intitolata 4’33” Chorus Loop.
Questa performance parlava di silenzio, ispirandosi al famoso lavoro di John Cage, ed era ciò di cui volevo parlare anche a Venezia, dove tutto si muove, tutti parlano, tutti fanno. Io andrò lì a proporre una partitura di silenzio, e la proporrò al pubblico, invitandoli a performare in silenzio con me, piccole isole quiete nel mare della folla assordante della Vernice Veneziana.
E così è stato. Ho portato il mio spartito, con la partitura di John Cage, il cronometro per calcolare la lunghezza precisa del pezzo, un cameraman che mi riprendesse, e mi sono posizionata in molti punti della Biennale eseguendo questa performance, con l’interazione e la partecipazione del pubblico, che ha così provato e sperimentato la dimensione introspettiva – e comunitaria – del silenzio.
Eccovi alcune foto:
Ho scritto quest’articolo sulla Biennale di Venezia per il quotidiano ‘La Voce di Romagna’ che in cambio mi ha dato l’accredito per la vernice e così ho potuto fare la mia performance, a sorpresa, durante l’opening, di cui vi parlo in seguito (v. post).
Ecco l’ articolo integrale:
Con tante opere, incontri, emozioni, fatiche, file, camminate, come al solito, e pioggia e freddo (meno solito), si è inaugurata mercoledì 29, giovedì 30 e venerdì 31 maggio 2013 la 55 Biennale di Venezia, che apre al pubblico dal primo giugno al 24 novembre.
L’opening veneziano per gli addetti ai lavori dura tre giorni perché la Biennale è un fitto e spazialmente enorme insieme di mostre e di padiglioni nazionali, collocata principalmente nella vasta aerea dei Giardini e nei suggestivi ex cantieri dell’Arsenale, ma anche in diversi sedi e palazzi sparsi in tutta la città.
Come al solito tante opere, tante suggestioni, tanti opening, tanti party, tanti artisti, curatori, galleristi, visi noti e meno noti, visi amici, visi conosciuti e sconosciuti, visi di ogni nazionalità e linguaggio. A volte una vera Babele, dove ci si perde, e dove bisogna anche lasciarsi andare al caso, perché nemmeno volendolo si può vedere tutto ciò che c’è da vedere, e incontrare tutti coloro che si desidera incontrare.
Già da parecchi anni la Biennale d’Arte di Venezia si struttura secondo due grandi pilastri: le mostre dei Padiglioni nazionali, ciascuno con il suo curatore e il suo progetto, ospitata nei Padiglioni che le singole Nazioni hanno acquistato da tempo ai Giardini o all’Arsenale, o affittato in città, o scelto appositamente (per esempio il Portogallo quest’anno si è presentato a Venezia con una nave proveniente da Lisbona e ormeggiata davanti ai Giardini, interamente allestita dall’artista Joana Vasconcelos), e la Mostra Internazionale del curatore della Biennale, nominato per ogni edizione, e collocata all’Arsenale e in parte ai Giardini.
Sono venuta a Venezia con due precisi progetti, entrambi impegnativi e divertenti allo stesso tempo: fare una performance a sorpresa basata sul silenzio (come buco nero di un momento che stiamo attraversando, dove mancano le parole, e ci mancano le parole per farci sentire, o il paese non sembra aver bisogno della cultura e degli artisti anche se sempre più li cerca) e avere una visione delle opere esposte per riflettere su ciò che sta accadendo nel panorama artistico internazionale e potervele raccontare. Progetti impegnativi perché antitetici, seppur sovrapposti: quando mi preparo per la performance e vago per i Padiglioni della Biennale, lo faccio senza vedere le opere, ma osservando tutto in funzione della scelta dello spazio in cui farò l’intervento e mi concentro solo su quello. Quando invece ho la testa libera dalla performance, mi trasformo in visitatore e giornalista, per cogliere le opere, goderle o giudicarle, ammirarle o criticarle, parlarne con gli altri e lasciarle lavorare dentro di me (che poi è questo ‘lasciar le opere lavorare dentro di sé’ che, a mio avviso, è la ricchezza più nutriente e stimolante dell’arte).
Quest’anno il curatore della mostra Internazionale è Massimiliano Gioni, giovane ma già molto famoso curatore italiano, presente nello staff direttivo del New Museum di New York, e il titolo dell’esposizione è Il Palazzo Enciclopedico. Massimiliano Gioni ha introdotto la scelta del tema evocando l’artista auto-didatta italo-americano Marino Auriti che “il 16 novembre 1955 depositava presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico, un museo immaginario che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità, collezionando le più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite. L’impresa di Auriti rimase naturalmente incompiuta, ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti visionari che hanno cercato – spesso invano – di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza.”
Questa scelta curatoriale e questo presupposto concettuale hanno dato luogo a una mostra molto complessa, fuori dall’ordinario, estremamente ricca di ‘inventari’ di opere di artisti e non artisti anche poco conosciuti o totalmente sconosciuti, molto interessante e ben allestita (giustamente però Marco Senaldi, sulle pagine di Artribune, evidenzia la pecca di aver nascosto le meravigliose strutture proto industriali dell’Arsenale dietro a un allestimento museale asettico e impersonale), che però si è presentata più come una grande opera curatoriale che come un insieme di opere artistiche belle e innovatrici. Una caratteristica, questa, che sta attraversando il mondo dell’arte ma che per molti addetti ai lavori risulta discutibile, poiché l’arte diventa solo un mero strumento per veicolare le visioni del mondo del curatore, che diviene l’artista finale.
Sia all’Arsenale che ai Giardini, per la mostra curatoriale Il Palazzo Enciclopedico, sono stati presentate opere compulsive di persone autistiche, serie di foto delle Alpi viste dall’alto e pioneristicamente fotografate a fine ‘800 dallo svizzero Eduard Spelterini nei sui viaggi in Mongolfiera, la collezione di foto di Cindy Sherman sul tema dell’identità, teche con sculture in legno di splendidi animali in miniatura per teatrini da mostrare in giro per il mondo di Levi Fisher Ames, pagine giornaliere di taccuini rigorosamente riempiti e disegnati ogni giorno dell’anno, come quelli di Josè Antonio Suarez Londono, o splendidi modellini di case abitative, progettate e realizzate dall’obliato Peter Fritz, agente assicurativo che aveva passato la vita a costruire tipologie di case abitative rigorosamente in scala e qui presentate, prendendole in blocco con un’operazione duchampiana, dalla coppia di artisti austro-tedeschi Oliver Croy and Oliver Elser.
Ci sono state naturalmente eccezioni, come il bel video sperimentale della giovane francese Camille Henrot che ha vinto il Leone d’argento come promettente giovane artista, o l’Italiana Rossella Biscotti con un progetto realizzato con le donne del carcere della Giudecca (ma poi presentato solo in forma di suono e di scultura creata col compost del carcere).
Interessante questo lavoro di catalogazione del mondo che perviene da questa mostra che si srotola per centinaia e centinaia di metri e di stanze fra gli Arsenali e i Giardini, curioso scoprire il lavoro quasi maniacale di persone più o meno conosciute che hanno lasciato tracce di sé attraverso il loro fare, commovente la riscoperta al mondo di queste opere e percorsi già trascorsi e ora rimessi in vita, sfizioso il concetto di enciclopedia e di inventario che ricorre nel succedersi delle opere mostrate, ma è mancata la presenza di grandi emozioni derivate dalle opere, e la forza artistica e innovatrice delle proposte. Altre due chicche in mostra erano l’originale del libro dei sogni di Carl G Jung, e le opere-seminari di Rudolf Steiner, opere belle e rare ma anche qui non certo opere d’arte autonome e nemmeno recenti (e vi parla qualcuno che adora il mondo di Jung e la sua vasta opera).
Ci si è anche domandato come mai la nostra società si stia avvolgendo su sé stessa e si proponga al mondo con la ripresa del passato e con il ripiegarsi su ciò che è andato. Curiosa infatti è la coincidenza con la grande mostra inaugurata, sempre in quei giorni a Venezia, alla Fondazione Prada a Ca’ Corner della Regina, che ha ricostruito in TOTO (e dire in toto vuol dire che ha ricreato i muri e la disposizione delle opere proprio come era allora) la storica mostra di Harald Szeehmann alla Kunsthalle di Berna nel 1969.
Lo scopo della mostra, visitabile sino al 3 novembre, è quello di riproporre, con la stessa intensità ed energia, le ricerche che andavano dalla Process Art alla Conceptual Art, dall’Arte Povera alla Land Art, sviluppatesi a livello internazionale alla metà dagli anni ’60, e di riallestire filologicamente il concept curatoriale. Le opere, seppur create quasi 50 anni fa, sono ancora assolutamente contemporanee e molto godibili, sia dal lato estetico-formale che concettuale. E divertente anche la telefonata dell’artista Walter De Maria (tramite il telefono usato nel 1969 per quest’opera intitolata Art by Telephone) alla quale ha risposto in diretta una Miuccia Prada circondata dai fotografi.
Ci si domanda allora: siamo in una crisi di identità così grande che la società si ripiega sul passato?
(Ci ricordiamo anche della scorsa grande e bella edizione di Documenta (13) a Kassel curata dalla bravissima Carolyn Christov-Bakargiev, dove si sono visti, oltre in verità a innumerevoli lavori nuovi e site specific appositamente progettati per la grande kermesse, la riproposta di artisti passati o dimenticati o mai conosciuti, che comunque ha emozionato conoscere e/o rivedere).
Ritornando alla Biennale, grande attualità e spesso spettacolari proposte si sono viste invece nelle singole mostre dei Padiglioni Nazionali, che hanno presentato in alcuni casi opere davvero potenti, assolutamente contemporanee e innovative, oltre che emozionanti e stimolanti.
Ai Giardini per esempio l’artista russo Vadim Zakharov ha presentato Danae, un’interessante installazione interattiva centrata sul tema del denaro, dell’uomo e della donna. Per questo lavoro il pavimento del piano superiore del padiglione russo ai Giardini, costruito 100 anni fa, è stato sventrato per realizzare un largo buco quadrato che permette dall’alto di vedere ciò che accade al piano inferiore, dove le donne del pubblico – nella parte inferiore del Padiglione non veniva permesso agli uomini di entrare – alle quali viene fornito un ombrello trasparente, vengono investite da una pioggia di monete d’oro proveniente da una piramide posta nel soffitto. Sui muri del piano superiore ci sono le parole rivolte all’uomo, al quale viene ricordato che è il momento di confessare, tra le altre, lussuria, avidità, narcisismo, invidia, ingordigia e stupidità. Lo stesso uomo costretto, iconograficamente, a flettersi (il buco realizzato per osservare la pioggia d’oro è circondato da un inginocchiatoio in velluto rosso) davanti al dio denaro.
Molto interessante, poetico e innovativo anche il Padiglione di Israele, dove l’artista Gilad Ratman ha presentato The Workshop 2013 un’installazione multicanale site-specific e performativa, ispirata a un viaggio sotterraneo intrapreso da una piccola comunità di persone da Israele a Venezia. Il loro viaggio epico comincia nelle caverne israeliane, attraverso pericolosi varchi sotterranei fisici, ma anche simbolici, per poi irrompere nel pavimento del padiglione israeliano, da un tunnel sotterraneo scavato per l’occasione. Queste persone quindi si ‘installano’ nel Padiglione e diventano i partecipanti del workshop, che consiste nel scolpire il loro autoritratto con l’argilla e inserirvi un microfono con registrati i suoni delle proprie voci. Un progetto complessivo che si attua quindi attraverso diversi media, dal video, al suono, all’installazione, alla scultura, alla performance, alla Land Art, a un intervento fisico nella struttura del padiglione, in un connubio certamente riuscito e significante.
Ancora il ‘Padiglione in sé’ è protagonista dell’operazione concettuale di Francia e Germania che per quest’edizione, e in simbolo di pace, si cambiano il relativo Padiglione Nazionale, in ricordo e in occasione del 50mo anniversario del trattato dell’Eliseo che mise fine a mille anni di guerra tra Germania e Francia. I padiglioni nazionali quindi diventano terreni simbolici di identità nazionale, scambio di identità, e materiale installativo da plasmare all’esigenza del progetto.
A tale proposito riuscito e stimolante è anche il Padiglione della Danimarca, sempre ai Giardini. L’artista Jesper Just, in collaborazione con un architetto e un comunicatore, ha chiuso l’entrata principale del padiglione stesso, facendo entrare i visitatori da un’entrata posteriore immersa in simulacri di lavori in corso, aprendo una connessione tra lo spazio dell’opera, lo spazio fisico del padiglione e lo spazio digitale del messaggio e sottolineando la sinergia con l’installazione video multicanale presente all’interno, che riflette sull’immigrazione, sul rifiuto, sui detriti, sul paesaggio.
Notevole è anche il Padiglione degli Stati Uniti, con l’artista Sarah Sze che in tre mesi costruisce in loco un’installazione poliedrica intensa e apparentemente caotica costruita con miriadi di materiali assemblati, che ricrea un caos del cosmo, che poi caos non è più.
Bello, poetico, denso e intenso il lavoro di Alfredo Jaar al Padiglione Cileno all’Arsenale, che con un’installazione altamente suggestiva, riflette sull’anacronismo delle Nazioni presenti con un proprio Padiglione Nazionale ai Giardini, padiglioni costruiti a partire dall’inizio del secolo scorso e non più adeguati a rappresentare la vasta e mutata geografia politica attuale. Jaar presenta infatti una struttura quadrata di metallo di 5 metri x 5 riempita di acqua, del colore dei canali veneziani, dalla quale, approssimativamente ogni tre minuti, emerge il plastico, ricostruito rigorosamente in scala 1:60, dell’Area dei Giardini di Venezia con i suoi 28 Padiglioni Nazionali. Il plastico architettonico dei Giardini rimane visibile per alcuni secondi, e poi si ri-immerge lentamente nelle acque verdastre della laguna. Questa installazione coinvolgente è un intervento evocativo e critico per esaminare in che modo la cultura del nostro tempo, costituita da network globali sempre più complessi, possa essere adeguatamente rappresentata su un palcoscenico internazionale.
Degno di nota, non forse per la qualità delle opere rappresentate, ma come notizia del suo esserci come Nazione, è il nuovo Padiglione della Santa Sede, all’Arsenale, che ha investito parecchie migliaia di euro per presentare opere centrate sul tema della creazione, ispirandosi ai primi 11 capitoli della Genesi. Tano Festa, Studio Azzurro (che con un’installazione video interattiva ricorda, non raggiungendone però l’altezza, le opere di Bill Viola), Josef Koundeka e Lawrence Carroll. Che anche il Vaticano stia capendo, a modo proprio, che la cultura non è sempre ‘pericolosa’ e che si potrebbe tornare alle grandi committenze che hanno fatto fiorire il Rinascimento e il Barocco?
Il Padiglione Italia, invece, nella sua recente collocazione alla Tesa delle Vergini all’Arsenale, e quest’anno curato da Bartolomeo Pietromarchi, ha presentato sette ambienti – sei stanze e un giardino – che ospitano ciascuno due artisti in dialogo fra loro. Alcuni binomi e opere erano più riusciti di altri, le proposte si indirizzavano verso linguaggi che spaziavano dall’installazione, alla performance, alla fotografia, e al suono e all senso dell’olfatto. Singolare e forte, a questo proposito, vorrei evidenziare l’opera olfattiva Per l’eternità di Luca Vitone, che in stretta collaborazione col maestro profumiere Mario Candida Gentile, riporta le essenze di rabarbaro svizzero, belga e francese, come evocazioni olfattive del disastro ambientale dell’Eternit, costringendoci, annusando l’essenza diffusa nell’ambiente, ad associare immagini inquietanti di presenze tossiche nell’aria che respiriamo.
Ci sarebbero ancora molte opere da analizzare o da mostrarvi, ma vi consiglio di andarci di persona e di lasciarvi interrogare dalle opere e relazionarvi con ciò che vedete. Ci sarebbero ancora molte parole da dire, ma vi lascio col silenzio, che è l’opera performativa che ho presentato a sorpresa durante l’opening. Avvalendomi di una partitura ispirata al famoso pezzo di John Cage 4’33” – che ho eseguito più volte di fila e accogliendo nella performance persone che desideravano interagire con me – ho incarnato, attraverso il silenzio, la difficoltà di parlare e di farsi sentire in un momento di grande crisi e di mancate speranze come quello che la nostra società sta attraversando, e la possibilità di essere sé stessi nonostante tutto, semplicemente connettendosi con ciò che si è.
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Tutte le foto dell’articolo: © LIUBA 2013, courtesy Biennale di Venezia
Per la performance di Liuba: © LIUBA 2013, foto di Riccardo Lisi, courtesy of the artist
guarda più foto della performance di LIUBA
Corpo, performance e conoscenza di sè
Laboratorio tenuto da LIUBA presso la sede di GEART nell’Appennino Emiliano
dal giovedì 4 a domenica 7 luglio 2013
Il corso-laboratorio si propone di stimolare le persone alla conoscenza di sè e delle proprie potenzialità creative attraverso l’uso del corpo e della performance come mezzo per conoscerci, conoscere e interagire con gli altri e l’ambiente.
Si lavorerà in gruppo e in maniera individuale. Ogni partecipante sarà seguito personalmente e aiutato a scoprire sia ciò che vuole comunicare sia il modo migliore per esprimerlo, seguendolo in una ricerca di linguaggi per produrre, ciascuno, la priopria performance. Tutte le performance ideate e create durante il corso saranno rappresentate pubblicamente la domenica pomeriggio.
Contenuti:
Il corso si struttura in tre tematiche intersecate:
Lavoro sul corpo: tecniche di concentrazione; tecniche di respiro; consapevolezza corporea; la postura e i movimenti; esplorazione delle possibilità performative del corpo.
Lavoro sulla psiche: scoperta del sé attraverso tecniche multimediali con danza, musica, colore, parole; individuazione dei propri bisogni creativi ed espressivi, ricerca del proprio linguaggio espressivo personale.
Lavoro sulla performance: definizione di performance e di multimedialità; individuazione e sviluppo di un tema performativo; lavoro individuale e in piccoli gruppi; creazione di performance personali: ricerca dei linguaggi appropriati per realizzarle, ricerca dei materiali, lavoro di preparazione, elementi di interazione col pubblico. Esibizione finale.
Tempi e Struttura:
Il corso-laboratorio si svolge dal giovedì sera alla domenica pomeriggio nella cornice dello splendido borgo Ronchesano, sede dell’associazione culturale Geart, sull’Appennino Bolognese presso Tolè e a 35 km da Bologna.
Per chi desidera è possibile pernottare e mangiare presso la struttura. I pasti sono preparati con ingredienti bio autoprodotti e coltivati nel borgo.
Programma giornaliero di massima:
GIOVEDI’ SERA: arrivo, accoglienza, cena h.21: conoscenza dei partecipanti, visione di video di performance e breve introduzione alla performance art.
VENERDI’ MATTINA: dalle 10 alle 13 Lavoro sul corpo: tecniche di concentrazione, tecniche di respiro, consapevolezza e studio delle posture, la semiotica del movimento, il linguaggio visivo col corpo, lo spazio, il movimento e l’interazione.
VENERDì POMERIGGIO: dalle 16 alle 19 Lavoro sulla scoperta del sé, esercizi con danze, colori, suoni e parole. Il conoscersi e l’esprimersi; Individuazione di un tema performativo personale; lavoro individuale e in piccoli gruppi.
SABATO MATTINA: dalle 10 alle 13 Sviluppo del tema performativo personale e tecniche di espressività multimediale; lavoro individuale e di gruppo; esperimenti di collaborazione interattiva SABATO POMERIGGIO: dalle 16 alle 19 Approfondimento delle performance emerse precedentemente; utilizzo di linguaggi appropriati; ricerca di possibili materiali occorrenti nella campagna circostante
DOMENICA MATTINA: dalle 10 alle 13 Messa a punto delle performance prodotte ed ultime elaborazioni
DOMENICA POMERIGGIO: dalle 16 alle 18 Presentazione al pubblico delle performances elaborate e create durante il corso
A chi è rivolto
A tutti coloro che si vogliono mettersi in gioco e scoprire sé stessi attraverso l’arte performativa e la multimedialità. A chi desidera passare dei giorni rilassanti e benefici in un luogo incontaminato dedicandosi alla creatività e al benessere personale. Questo corso è un corso base, adatto sia a chi non ha mai fatto performance, ma è anche concepito come un approfondimento per chi ha già esperienza, dato che ognuno sarà aiutato a sviluppare le proprie potenzialità e il proprio livello.
Bio di LIUBA, conduttrice del corso
Liuba è un’artista multimediale che lavora con performance, video e progetti interattivi site-specific. Ha studiato al DAMS di Bologna laureandosi in Semiologia delle Arti col massimo dei voti e frequentando contemporaneamente l’Accademia di Belle Arti. Dal 1993 lavora con la performance, ottenendo successo sia in Italia che all’estero. Ha presentato sue performance e video ad Artissima Art Fair, Torino, PAC Padiglione d’arte contemporanea di Milano, alla Biennale di Venezia, ad Art Basel, all’ Armory Show a New York, a Scope London, in Germania, in Cecoslovacchia, in Canada e in molte gallerie italiane ed estere. Si è dedicata con passione alla progettazione e realizzazione di numerosi laboratori creativi per ogni fascia di età, lavorando per il Comune di Bologna, il Comune di Milano, la città di Rimini e il Ministero della Pubblica Istruzione. Questo è il suo secondo corso dedicato interamente alla performance art. www.liuba.net
PER INFORMAZIONI ED ISCRIZIONI:
Tel. 051 6706320
Cell. 338 5897819
assculturalegeart@gmail.com
www.assgear.wordpress.com
Come so benissimo, il lavoro del montaggio è lungo faticoso ed estremamente lento. Sono passati molti mesi, Egle mi diceva che c’era così tanto materiale che era difficile tagliare e fare un video con una durata e un ritmo ottimale alla visione, specie dal web. So bene cosa vuol dire fare scelte continue, nello scremare ore e ore di materiale per ottenere un video sintetico di una decina di minuti o anche di meno. E’ una delle maggiori difficoltà che anch’io incontro nella realizzazione delle mie opere video. La cosa più difficile è scegliere cosa togliere, quando il materiale è buono. E’ una fatica immane scegliere cosa scartare e motivare cosa tenere e come montarlo, per cui ho profondamente capito Egle quando mi diceva che aveva bisogno di molto tempo perchè il lavoro era molto faticoso.
Ieri però la sorpresa: il video è pronto e pubblicato. Sono stata molto felice perchè lo trovo davvero un bel lavoro, e pure un po’ narcisisticamente compiaciuta di essere venuta bene in video!…
Buona visione
4’33” Chorus Loop, performance collettiva per coro di persone assortite, 4 performances in 4 giorni, Flash Art Event, Milano, © LIUBA 2013
Ho concepito questa performance per parlare del silenzio, o meglio per farlo vivere. Silenzio perchè siamo in tempi in cui, a mio avviso, la scelta migliore è stare in silenzio, raccogliere energie e meditare e ho deciso di fare una performance collettiva in cui il pubblico partecipante potesse vivere il silenzio, provare empatia per gli altri, esperimentare gli effetti interiori che un silenzio prolungato, dal quale per accordo non si può uscire prima del tempo, genera nella propria anima e psiche. Mi sono ispirata al famoso pezzo di John Cage 4’33”, declinandolo in chiave performativa – partecipativa, pensando a un coro di persone che esegue insieme un tot di volte il famoso brano. Il che vuol dire un silenzio di 4 minuti e 33 secondi ripetuto in loop almeno 3 volte, ossia circa 13 minuti di silenzio da eseguire e rispettare.
Coloro che desideravano partecipare alla performance dovevano sottoscrivere un patto con me, nel quale si impegnavano a rimanere nel coro della performance per tutta la durata del silenzio, e a scrivere su carta le loro impressioni alla fine della loro esperienza. In cambio io ho donato a ciascuno un attestato di partecipazione alla performance.
La performance è stata molto intensa e si è ripetuta per ogni giorno della Fiera di Flash Art, nello stand di Visualcontainer dove era in corso la personale delle mie opere fotografiche e video.
E questi di seguito alcuni commenti dei partecipanti, commenti che compongono una installazione insieme col leggio.
Per chi vuole ecco la presentazione del progetto, come era presentata nel catalogo della mostra.
La semplice ripetizione del pezzo in loop è un elemento fondamentale del progetto, poiché causa un allungamento del tempo da passare in silenzio, diventando anche una sfida di resistenza e di ascolto da parte dei partecipanti e da parte del pubblico.
Ho lasciato passare del tempo, dalla mostra al Flash Art Event, (v. post col comunicato stampa) perché avevo bisogno di metabolizzare, di riprendermi, di capire e di curarmi. Non so se quello che ho intenzione di scrivervi vi sarà di giovamento oppure si torcerà contro di me, oppure sembrerà inopportuno. Non lo so bene, ma so che desidero in questo diario raccontarmi, e raccontandomi essere onesta, ed essendo onesta aprire pagine del proprio essere che gli altri possono condividere, facendo vedere qualche piega magari oscura, che contrasta con ciò che si percepisce da fuori e che percepiscono gli altri. E poi, non so se per presunzione o meno, vorrei che il condividere ciò che provo, e anche le difficoltà di una vita gestita cercando di dare il meglio di sé nell’arte e al tempo stesso cercando di convivere con i normali problemi della sopravvivenza, possa essere se non di aiuto, almeno di conforto a qualcun altro, alle prese con le stesse difficoltà.
Perché ti senti davvero solo, solo con il tuo apprezzamento, che non ti serve per pagare le bollette di casa, per aiutarti ad andare avanti, per motivarti davvero a continuare, perché ti senti solo a scegliere stupidamente di investire energie tempo soldi fatiche momenti anni sangue pensieri emozioni convinzioni in qualcosa così effimero come un’opera d’arte che non sai mai se sarà vista, e se sarà vista non sai che senso ha che sia vista, e così pure per la performance, dove la gratificazione è immediata, e ripagano gli sforzi gli abbracci e i grazie delle persone, ma quanto spesso ti senti sola nel portare avanti questo fardello, nel mettere in gioco tutto, quando gli altri spesso non fanno altro che stare lì dal di fuori a dare i giudizi. No, a volte non è proprio facile, né piacevole la vita dell’artista, e ci vuole tempra, se mai si riesce a resistere. Checchè ne dicano quelli che incontri dal di fuori che ti dicono: ah fai l’artista, che figata!!
Però non nego che qualche vantaggio c’è, almeno la libertà è qualcosa che nessuno ci toglierà mai, e liberamente in questi giorni ho deciso di staccare per ricaricarmi, per finalmente vivere senza occuparmi delle scelte artistiche da fare, fregandomene abbastanza di tutto e cercando di darmi del tempo per capire perché, nonostante una bella mostra, e un discreto successo, io abbia sofferto come un cane.
Non so se qualcuno si è riconosciuto in queste parole. Ma mi sono sforzata di tirarle fuori e di mettermi a nudo proprio per solidarietà con questo qualcuno. Raga, anche se magari in pochi, ma siamo nella stessa barca, forse, o no?? Se volete scrivere le vostre storie o i vostri commenti mi farà immensamente piacere!
Buon anno a tutti e buon 2013!!!
Sono molto eccitata perchè nel 2013 festeggio i 20 anni di performances e di attività artistica, e sto preparando alcune sorprese in proposito.
In realtà la prima performance la feci nel 1992 al centro d’Arte Masaorita di Bologna (Zucchero e le fragole, performance multimediale tratta da una mia fiaba con musica originale di Nicola Cursi dal vivo), ma è dal 1993 che cominciai a fare performance ed esporre con più consapevolezza e regolarità, ed è per questo che i vent’anni ho deciso di festeggiarli nel 2013!
Sempre al Centro d’arte Masaorita di Bologna infatti (ma che bello quel posto era, e come ci sentivamo una famiglia! Ricordo con commozione Gianni e Maurizio Venturi e tutti loro) feci la seconda performance nel 1993 intitolata ‘La margherita dai petali colorati’, in collaborazione con la musicista tedesca Gaby Bultmann, che ora vive a Berlino.
Anche questo lavoro era una performance multimediale che partiva da una mia fiaba, con immagini, testi, azioni e musiche originali. A quel tempo scrivevo fiabe per adulti (poi le pubblicai anche per un editore per bambini, con dei miei disegni fatti apposta) oltre a dipingere e scrivere, e proprio con le fiabe cominciai a fare performances, con l’idea di perlustrare, con la sinergia dei linguaggi, i diversi livelli simbolici del testo (Sui simboli, le fiabe e la semiotica ci lavoravo molto allora, e feci anche la mia tesi di laurea al DAMS su questo argomento).
E da quelle sperimentazioni performative scoprii quanto mi piaceva l’aspetto corporale, fisico, immediato, interattivo della performance e del contatto col pubblico, e così da allora continuai per quella strada con molta gioia e fatica, pur continuando, specie nei primi anni, a dipingere e scrivere. Anzi, le immagini e le poesie che producevo rientravano poi tutte nelle performances, e l’aspetto visivo e verbale fanno sempre parte del mio background e del mio percorso.
Dunque, in quest’anno di festeggiamenti vorrei un po’ fare il punto della situazione e mettere in campo un percorso. Sto lavorando, insieme a un’assistente, all’archivio dei lavori dei progetti e della press, è un lavoro lungo e lungi dall’essere finito, ma ne vale la pena, e già ora si sta rivelando utile e divertente. E vedrete che si produrranno alcune cosette nuove in proposito…
Un importante festeggiamento che sto preparando e di cui sono molto contenta, eccitata e, forse, un po’ spaventata (le responsabilità mettono sempre un po’ di paura, vero?), è una nuova performance collettiva e una mostra (con una serie di lavori nuovi) per l’imminente fiera di Flash Art, il Flash Art Event che si terrà a Milano agli inizi di febbraio. Ecco, ve l’ho detto. Ora non vi anticipo niente sui lavori, che sarà una grande sorpresa.
Vi dico solo che la performance collettiva sarà fatta PER VOI e concepita perchè chiunque vi partecipi, persone che vengono alla fiera, volontari, pubblico, curiosi, ecc.. Partecipare alla performance è molto facile e non è richiesta nessuna esperienza performativa. E’ qualcosa che tutti sono possono fare e sono invitati a fare! Ci sarà soltanto un piccolo contratto di partecipazione da rispettare 😉
Questo nuovo progetto al Flash Art Event sarà presentato da Visualcontainer di Milano e curato da Mark Bartlett, il quale è ritornato a Milano per lavorarci insieme apposta (e abbiamo passato l’Epifania a fare brainstorming come pazzi!) prima di rientrare a Londra. Arriverà presto tutta la comunicazione ufficiale, ma intanto vi anticipo le date dell’evento: dal 7 al 10 FEBBRAIO: la performance collettiva sarà tutte le sere alle 19 o alle 20 (orario ancora da definire..) … per cui ‘save the date’ e venite numerosi a partecipare!
Qui di seguito vi metto la foto recentissima fatta da Alessandro Brunello (che ringrazio) al Frida mercoledì sera, dopo l’Opening al (.Box) di Visualcontainer della rassegna video Playtime curata da Cecilia Freschini (a destra nella foto). Ho pubblicato questa foto perchè è bella e anche per ringraziare la giovane artista Federica Cogo, abbracciata con me, per le bellisime parole che ha detto sul mio lavoro e su questo blog, che mi spronano ad andare sempre più avanti. Queste cose fanno scaldare il cuore e danno un gusto grande e forte a continuare. Grazie Federica!
Da destra a sinistra: Cecilia Freschini, Domenico Veneziano, Federica Cogo e LIUBA
Sto leggendo l’ultimo numero di una famosa rivista d’arte (non voglio fare pubblicità a nessuno per cui non ci metto il nome, guarda un po’!) e incontro le parole del famoso artista Daniel Buren che verbalizzano in maniera sintetica precisa e lucida ciò che è accaduto al ruolo dell’artista, esperienze che stanno davanti agli occhi tutti i giorni e riflessioni che mi pongo anch’io e che vivo sulla mia pelle come molti altri.
E’ con gratitudine quindi che ho scelto di usare le parole di questo vecchio grande artista per condividere con voi una situazione che penso e che vedo. Non aggiungo altro, perchè queste parole dicono già tutto.
” Siamo costretti a constatare, ogni anno, che il ruolo dell’artista continua a ridursi poco a poco. Non solo per la sua storica posizione di oppositore, ruolo che l’artista ha mantenuto per molto tempo, ma, cosa ancora più grave, non è più un elemento centrale del sistema. L’artista è diventato l’individuo che accetta tutto ed è accettato da tutti. Nello stesso tempo si trova, senza nemmeno rendersene conto, inghiottito, digerito, rigettato e quindi rimpiazzato da un altro omologo che si trova esso stesso inghiottito, digerito, rigettato e così via.
Da tempo, nel mondo delle arti, l’artista non è più al centro. E’ stato prima sostituito da curatori senza scrupoli che si credono artisti e che si sono sostituiti agli artisti confinandoli alla periferia, come una musica d’ambiente o, come dicevo già tanto tempo fa, come un piccolo tocco di colore necessario all’elaborazione e alla confezione della mostra.
Più recentemente, il centro di interesse si è ancora spostato con violenza seguendo il diktat delle case d’asta e dei collezionisti milionari. L’artista e la sua opera, nel mezzo di tutta questa banalità effimera, sono solo giocattoli tra le mani di speculatori avidi che finiscono per tenere in scacco questo sistema.”
Daniel Buren
ARIA DI NEW YORK
Unendo le suggestioni duchampiane (ricordate l’Aria di Parigi nella bolla di vetro?) e quelle manzoniane (la mitologica Merda in scatola), l’artista cecosclovacco Kirill Rudenko ha creato la Canned Air from New York City, ossia 375 ml di pura aria della Grande Mela. In vendita sulla sua pagina Etsy per soli dieci dollari.
http://www.artribune.com/2012/10/la-rivincita-dei-nasi/
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