In questo periodo sono in Italia felicemente, ma sto seguendo con ansia cosa sta succedendo a New York l’hurricane Sandy. Mi immagino la città che corre sempre con il black out elettrico, gli ascensori che non funzionano e le decine e decine di piani da farsi a piedi per salire in cima, le stazioni della metro bloccate e i disagi vari. Ma so anche che New York è una città che reagisce, rigurgita, bolle si tempra e riprende,e cambia, come sempre. Un gesto d’affetto a questa città, che è dura e allegra allo stesso tempo. E un abbraccio di cuore a chi è travolto dalle difficoltà, di Sandy come della vita.
Nel frattempo… io sono immersa nella natura dell’Appennino Emiliano, prima in zona colli Piacentini (una scoperta inaspettata e molto apprezzata durante lo scorso week end) ora vicino Tolè dalla mia amica Danusia, dove amo venire spesso, sia per vederla che per ricaricarmi e ispirarmi. In città più di tanto non ci so stare, per cui mi porto via il computer e il lavoro appena posso. Oggi ha piovuto tutto il giorno, ma amo sentire il rumore della pioggia battere sui vetri, sul legno e sulla pietra, per cui me la sono goduta ugualmente, dopo tanti giorni di bel tempo. E domani sera…grande festa di Halloween intorno al fuoco! Haarggggh
(Mi piace alternare la grande città alla più quieta campagna…)
Ebbene si. in occasione della sfida tra Barack Obama e Mitt Romney per la carica presidenziale, l’artista Jonathan Horowitz metterà in piedi l’installazione Your Land/ My Land ’12. Si tratta delle versione riveduta e corretta della precedente opera, November 4, che nel 2008 l’artista installò alla galleria Gavin Brown’s Enterprise di New York e incentrata anch’essa sulle elezioni presidenziali. Il risultato fu una bizzarra sala d’ascolto dove gli spettatori potevano assistere agli exit polls dei due contendenti.
La nuova creazione sarà presentata in vari stati ed in vari musei tra cui il New Museum, il Contemporary Arts Museum di Houston, l’Hammer Museum di Los Angeles e lo Utah Museum of Contemporary Art. Anche questa volta Horowitz installerà una serie di tappeti rossi e blu (i colori dei due partiti americani) a dividere lo spazio dotato di monitor che trasmetteranno incessantemente notizie di Fox News e CNN. In ogni area sarà inoltre collocato un ritratto del presidente Obama che, in quanto rappresentante attuale di tutti gli americani, penderà dal soffitto, e un ritratto di Mitt Romney collocato invece sul pavimento. In caso di vittoria Obama la posizione dei due ritratti rimarrà la stessa, al contrario nella sua eventuale perdita, le loro posizioni saranno invertite. L’installazione sarà “personalizzata” per ogni museo e particolare attenzione sarà attratta dal ruolo che le istituzioni culturali possono svolgere per la democrazia. ‹‹Il mio lavoro non è semplice arte, è puro attivismo›› ha dichiarato l’artista. Nel corso della mostra, si offriranno così proiezioni del dibattito presidenziale e un sito web, accessibile a ogni museo, collegherà le diverse posizioni permettendo agli spettatori di lasciare commenti in diretta. Secondo Horowitz, ‹‹Se razza e genere sono stati i temi che definirono le elezioni del 2008, la politica economica e la disparità economica saranno probabilmente i focus per il 2012››. Che vinca il migliore?
Di solito,da anni e anni, quando finisco una performance ho una stanchezza tale e anche lo scarico della tensione e di tutta l’energia accumulata e usata, che dormo e larveggio per alcuni giorni, senza a volte riuscire ad alzarmi dal letto o a fare alcunché, e sono giorni in cui ti godi il non far nulla, in cui senti il corpo azzerato che sa come rimettersi in sesto, e da un lato ti senti beata e soddisfatta, dall’altra c’è sempre anche un po’ di tristezza e di interrogativo – del tipo: ma che senso ha tutto questo, tanto gran lavoro e poi cosa resta, ecc … – interrogativo che quando sei stanca come una larva può anche causare leggeri pianti depressi ma poi passa col rifiorire delle forze – bene, dicevo che di solito succede così, e il mio corpo va in catalessi per tre dì …
Ma questa volta il giorno dopo della performance al Grace Exhibition Space ( v. post) corrispondeva al giorno prima dell’aereo, e invece di poter restare a far niente tutto il giorno, dormire, vedere amici e vagare per New York o magari sdraiarsi a central park, ho dovuto sforzarmi quasi piangendo perché non avevo forza alcuna, per liberare la mia camera, fare le valige (compreso fare alcuni miracoli per fare stare tutte le cose), andare a fare un’ultima foto della moschea per il progetto delle religione che mi avevano detto essere verso 30th street o giù di lì, e uscire con un mio caro amico appena rientrato a New York dopo mesi che non c’era …
Troppo per lo stato larvale del post performance. E non scherzo. E’ il fisico a non esserci. Cambio faccia, divento pallida, non riesco a muovere gli arti ma li trascino, tendo a stare solo orizzontale, il pensiero è più lento di una lumaca, e di solito piango per un nonnulla, e il cuore batte a tremila per lo sforzo. So che sapete cosa intendo. Energie residue -100.
Non era una bella sensazione non dare al tuo corpo e alla tua mente ciò di cui ha bisogno, e tantomeno pensare di attraversare l’Oceano e di andare altrove, e di chiudere per ora con questa parte di mondo. Io non sono per niente brava con i distacchi. Sia con le persone che con i luoghi. E paradossalmente forse per questo mi muovo molto e viaggio, per poter ritornare da chi ho lasciato, in un vortice quasi perverso di pezzettini che ti si staccano dentro. E naturalmente infatti avevo voglia anche di rientrare in Italia, con le persone care che mi aspettavano, e finalmente un cibo decente, e una camera un po’ più larga (qui a Manhattan vivevo stretta come in un sandwich), e il progetto a Genova che si avvicinava e che avrebbe catalizzato tutte le mie forze per il prossimo mese … ma no, lasciatemi riposare per almeno una settimana, poi riparto. E invece l’aereo è lì, come un laccio al collo, e poi non sarebbe possibile rimandare, perché ho le scadenze italiane … e nemmeno è possibile partire senza fare i bagagli e dividere cosa mi porto e cosa lascio (lascio sempre alcune cose a New York che non mi sto a portare avanti e indietro, e che mi fanno sentire ‘casa’ quando torno … ). Non è possibile prendere l’aereo senza le cose (e tra vestiti per tre stagioni, tecnologia, materiali, libri, beautycase ben equipaggiato e le tante paia di scarpe necessarie, il gioco non è di quelli essenzialmente leggeri …
Distrutta, amebica, post performance, piangente dalla spossatezza, mi trascino a fare tutto, e poi alla sera mi sveglio pure e passo la nottata fuori col mio amico Ish (e poi mi dico vabbè, è l’ultima nottata a New York e mi sforzavo anche se ero fuori del melone dalla stanchezza … ).
Che dirvi, il giorno dopo metto la sveglia dopo poche ore, finisco di impacchettare tutto (devo anche correre a comprare un’altra valigia, e per far prima ci vado in bicicletta, compro un valigione enorme che persone gentili mi aiutano a fissare sulla bici e pedalo sino a casa con sta cassa di valigia in bilico sul manubrio … Insomma faccio tutto, prenoto taxi collettivo, faccio le ultime telefonate agli amici, e mi trovo al JFK dove per un motivo o per l’altro non mi riesco a rilassare nemmeno lì (tanto per cambiare qualche disfunzione imprevista dell’Alitalia, tipo caricarsi il valigione perché era l’unica compagnia aerea che non aveva il tapirulan per il check in.
Prendo il volo. Adoro però l’aereo. Perché quando sei lì ciò che hai fatto hai fatto, un luogo diventa passato, e quello in cui vai è ancora futuro e non sta nella tua testa, quindi la testa è libera di volare, è leggera, è presente nel presente, è vigile, è paziente. E naturalmente quando arrivo a Milano, con le 6 ore perse nel fuso orario e una giornata in cui la notte non esiste e non hai dormito per due giorni, ecco che mi trascino da Malpensa verso Milano verso il taxi verso via Bramante verso il mio letto (anzi il divano letto della cucina) e mi incollo lì per due giorni e notti consecutivi, senza sapere nemmeno dove sono dove vivo e chi sono.
Lo decido perché è la summa di un’esperienza pluriennale del mio stare qui a New York, oltre a un’esperienza pluriennale di interesse alla qualità del cibo, al mangiare bene e alla cura naturale. In più qui in America più che altrove, il cibo – come tutto – è oggetto di marketing sfrenato e tutto fa capo ai soldi. Ho vissuto e pensato e sperimentato tantissimo su questo argomento e fatto riflessioni composite per molti anni. In più questa volta, arrivando a New York a gennaio, ho cominciato subito a fare una serie di fotografie centrate sul rapporto col cibo. Per cui ora era proprio giunto il momento di parlare di questa cosa, e parlarne voleva dire usare il mio linguaggio, e fare un’azione di performance mista con foto e testi, dove ho messo tutto ciò che volevo dire, che sentivo, pensavo e comunicavo. (Credo che noi artisti creiamo cose perché non siamo capaci di esprimere con un linguaggio comune la sottigliezza delle cose che vorremmo esprimere, e allora ti devi trovare un linguaggio appropriato per comunicarlo).
Ovviamente avrei potuto fare al Grace Exhibition Space un lavoro già preparato e già sperimentato, dove non avrei avuto la vertigine dei tempi della creazione e dei tempi stretti della scadenza, ma sapevo che questo nuovo “Food Project” era ciò di cui avevo esigenza ORA di fare e che lo dovevo assolutamente fare in America, perché è stato incubato qui, e il linguaggio che voglio usare ha senso qui. E sempre un po’ sacrificandomi per l’arte e per esprimermi, mi sono messa in questa gara di preparare e inventare tutto per tempo (e poiché a New York le cose accadono, ma tutto è veloce, ho avuto la conferma della data solo un paio di settimane prima e non si sarebbe potuta rimandare più in là, perché dopo dovevo prendere un aereo …).
A volte invidio un po’ le persone che lavorano nel teatro. Loro producono degli spettacoli, impiegano le risorse per molto tempo, poi però per magari un anno, o comunque moltissime repliche, vanno in giro a portare quello stesso spettacolo già preparato. Almeno la fatica della preparazione ha i suoi benefici e viene diciamo, sfruttata … Invece per noi non è così. Nell’arte contemporanea, e nella performance, ogni evento è unico e irripetibile. Ogni performance è un qui ed ora, hinc et nunc, irripetibile. A volte ho impiegato anche anni a preparare dei progetti (v. per esempio la complessa performance ‘The finger and the Moon #2’) e poi la fai una volta sola. Poi impiego pure molti mesi per lavorare ai video. E basta. Fine. Il lavoro rimane. E’ esposto. Viene visto, ma non si ripete. A volte ciò mi frustra un po’. Eppure poi sono io per prima che lo scelgo: infatti quando mi invitano a ripetere le performances, io di solito non lo faccio. Al limite, se mi interessa, parto dal progetto ma lo modifico adeguandolo al territorio e allo spazio. Credo proprio che una delle differenze più sostanziali tra la performance art e il teatro sia proprio questa ‘unicità’ versus la ‘ripetibilità’, la presenza dell’esserci Vs la recitazione di qualcosa. Non dico una è meglio una è peggio. Sono solo sostanzialmente diverse (tanto è che nel passato mi offrirono più volte di ‘recitare’ a teatro, ma non ne sono minimamente capace né mi interessa, perché riesco solo a fare ‘me stessa’ ed esprimere ciò che sento in quel dato momento).
Cosa ho fatto per la performance a Brooklyn? Ho creato una videopresentazione con le – belle – foto fatte in questi mesi newyorkesi sul cibo, sul marketing, sui dollari e la fame. Poi ho scritto dei commenti poetici alle foto che ho messo in parallelo nel video e ho mandato il video, grande, a tutta parete, durante la performance, con la funzione di contrappunto e dialogo con l’azione live, in quanto ciò che facevo con le azioni era spesso in contrasto e contrapposizione con ciò che la gente vedeva nel video. E, sia giocosa che professionale, precisissima, ma ironica, mentre andavano le immagini e le riflessioni, ho cucinato live per 30 persone. I puri, perfetti, decantati e amati spaghetti col sugo fatti a regola d’arte (ovviamente, dato che sono italiana), di quelli da leccarsi i baffi e che in America non sanno cosa sia ma che adorano anche con i surrogati, e poi ho invitato il pubblico a condividere il cibo, a fare festa, a fare banchetto. Perché il cibo è anche incontro, e non solo sfruttamento, è socialità, e non solo biologia, è dono e non solo marketing. Ho voluto appositamente portare lì una parte importante della mia italianità, il rapporto col cibo e la socialità ad esso connessa. Avevo il bisogno di dichiarare la mia identità e la mi appartenenza. In modo evidente, ma non banale.
Ancora per una volta la mia performance era un dono, perché mi sono spremuta come un limone per un mese, ho dato ogni mia fibra (compreso lo stress della stanchezza) e come spesso accade non ho preso il becco di una lira, ma il senso del dono del cibo e del darsi e dell’offrirsi era anche uno dei sensi del lavoro.
(P.S. Per cucinare cotanta roba al Grace Exhibition Space ho letteralmente smontato la cucina dell’appartamento in cui vivevo nell’East Village, e devo essere grata a Fred, il mio padrone di casa, per avermi lasciato usare e trasportare attrezzi vari e pure la sua cucina a piastre elettriche …
Inciso: – consiglio a tutti gli aspiranti performer e artisti di essere maschi o mascolini principalmente, o fare molto sollevamento pesi, perché così si riescono più facilmente a sgroppare tutti i materiali che occorrono perchè si fa una fatica boia (io sono robusta in molte cose ma la forza nelle braccia no, non ce l’ho proprio, e o stramazzo o devo chiedere aiuti vari a destra e a manca o a pagamento …) – fine dell’inciso.
Rientro a New York da Montreal con emozioni a palla: il distacco che sempre fa male, tanto più perché è stato un distacco di pochi giorni insieme, passati nella burrasca, e quando il mare è tornato liscio e trasparente era ora di partire. E partire voleva dire non solo andare a New York, ma poi dopo riattraversare un oceano e sei ore di fuso orario e tornare in Europa, in Italia, e sentire la frattura della nostra distanza moltiplicarsi.
Rientro a New York e ho una nuova performance imminente, con la dose di incognita, imprevisto, fatica e lavoro che mi aspetta. Già da parecchio la stavo preparando, ma gli ultimi giorni sono sempre i più densi – quelli dove non ti puoi permettere deroghe, perché se c’è una cosa da scegliere e da preparare, la devi scegliere e preparare da un momento all’altro, e non puoi andartene a dormire o passeggiare, nemmeno se sei molto stanca (e la fatica sta proprio in questo costringere il cervello il cuore e la fantasia al lavoro anche se ti chiedono di riposare …).
Rientro a New York da Montreal e dopo poco rientrerò in Italia, non so più di dove sono e a chi appartengo. Un po’ ne ho voglia e un po’ no, un po’ non vedo l’ora di ritornare a una modalità di vita che mi appartiene e mi manca, così come non vedo l’ora di vedere la mia famiglia e le persone care, ma al tempo stesso non sono pronta ad andare via da qui, tutto è troppo veloce e ho bisogno di più tempo. O di vite parallele. E’ come se le vite scorressero parallele in più luoghi, e mi ci vuole tanto tempo per ciascuno.
Faccio le 12 ore di pullman per New York con queste emozioni contrastanti, intense, struggenti. Arrivo a Manhattan distrutta e senza nemmeno il tempo di riposare o di ascoltarmi. La “to do list” per la performance incombe e, chi realizza cose lo sa, mi ero fatta un calendario improrogabile per farci stare tutto ciò che dovevo fare e che occorreva ultimare – finire il video, decidere le immagini, comprare i materiali, trovare arnesi, rivedere i testi, scegliere i vestiti, ecc … pazzesco come lavorare con la performance sia a volte lavorare a 360 gradi – tra qui e l’ora della performance, e ogni deroga non era concessa.
Mille equilibrismi per fare tutto … Mi sentivo come l’elefante di Union Square …
Queste ultime settimane sono state veramente intense, come sempre e spesso accade a New York. Il ritmo di Manhattan è piuttosto vorticoso, e ti avvolge, però ciò che mi piace è che questa città è provocatoriamente contraddittoria, per cui si trova il ritmo vorticoso e anche la quiete più pacifica …
Ho fatto veramente di tutto … siete curiosi? Ecco una lista sommaria di queste ultime settimane :
– Messo l’annuncio su craig list per trovare il web designer che mi aiuta a sistemare il sito del progetto finger moon;
– Ricevuto una valanga di risposte in un paio di giorni, e mi ci sono voluti alcuni giorni completi per valutare i lavori e gli esempi delle persone che si offrivano, e selezionarli per un ‘colloquio’;
– Visto le persone selezionate e scelto la persona (una donna, tanto per cambiare … ) che mi è piaciuta di più, come professionalità, idee proposte e compatibile col budget limitato che avevo a disposizione (e questo grazie a un donatore prezioso che sta sostenendo ‘the finger and the moon’ project);
– Visto molte performances, sia al grace exhibition space, sia ad exib art;
– Visitato il New Museum (mostra the Ungovernables: mi è piaciuta parecchio, molti lavori interessanti, a volte molto semplici, ma sotto una lieve nuova variazione di prospettiva. Molti lavori provenienti dai paesi ‘emergenti’, come Brasile, Sud America, India, nord Europa, paesi arabi …);
– Visitato la biennale del Whitney (pollice verso per quasi tutto). Sembrava di essere a una delle più banali mostre di fine anno scolastico, prove e pasticci vari, e nemmeno un articolazione espositiva efficace o interessante …- l’unico lavoro che ho goduto è il Circus di Calder, che non faceva parte della biennale, ma era nella sezione delle opere permanenti …
– Sono andata a Washington per 2 giorni ( v. post) per rivedere il mio amico storico Mengoz che vive in America da 20 anni e che non vedevo da più di 10 (lui vive vicino a Detroit e fa lo storico di musica antica insegnando all’università). Abbiamo camminato a non finire e parlato e ruota libera e a raffica delle nostre vite per tutto il giorno e mezzo che siamo stati insieme. A Washington ho anche fatto un’azione lenta in omaggio alla giornata della lentezza 2012.
– Ho tenuto costante contatto con la mia assistente Francesca in Italia, che sta facendo un preziosissimo lavoro di archiviazione cartelle, press e progetti, con la mia collaboratrice antropologa Barbara e la curatrice Alessandra per lo sviluppo dell’imminente performance ed evento collettivo di Genova. (The Finger and the Moon #3)
– Ho lavorato a due progetti in progress, site specific su New York: uno è il nuovo progetto del cibo (sto soffrendo non poco con la qualità del cibo che mangio, pur stando quasi ossessivamente attenta a cosa compro o a dove mangio … ) ‘the food project’ che per ora è incominciato con una serie fotografica estetica-denunciante-riflessiva che ho scattato andando in giro e frequentando la città.
– L’altro è progetto è ‘the finger and the moon’, in corso da parecchio, ma con un nuovo step: sto scattando fotografie alle miriadi di chiese/templi/sinagoghe che ci sono a New York, le più disparate immaginabili e con un mix di architettura, vita, spiritualità sommersa dall’urbanità, che è molto interessante. Questo corpus di immagini del progetto mi servirà sia per la mostra che per la performance di ‘finger and the moon #3’ da farsi a Genova.
– Ho programmato con Jill del Grace Exhibition Space la mia nuova performance sul cibo che farò in questa galleria, e abbiamo faticosamente fissato la data del 16 aprile (poiché io il 18 parto) per cui tutto piuttosto di fretta come al solito, ma qui a New York le cose sono così tante e rocambolesche che a volte si riducono con tempi molto stretti, però almeno qui le cose SUCCEDONO. ‘Make things done’ come dicono qua. Ed è vero.
LIUBA, The Food Project, 2012, foto della serie per la performance
– Ho comprato, cambiandola due volte (ma per fortuna qui da H & B – o B & H? non ricordo mai … – compri una cosa, la provi e poi la cambi o la rendi se non ti piace), una nuova macchina fotografica con video HD da bomba e super leggera, che è stato il mio indispensabile strumento per le mie foto site specific. Ma che fatica per me comprare la tecnologia, quando ci sono mille proposte, mille differenze, e mille prezzi dalla a alla z … Ho comprato anche una videocamera HD molto buona con un prezzo interessante, ma non l’ho ancora provata bene (e ho sempre tempo per restituirla) … ma ci ho impiegato un mese a vedere modelli e decidere (e non essendo io una tecnica esperta, ma essendo molto esigente e non ricchissima, mi agito tantissimo … ).
– Ho avuto un’otite fortissima con male alle tempie, che mi ha costretto ad andare al pronto soccorso, poiché non sapevo dove andare, e a farmi toccare con mano il servizio sanitario di qua (terribile e carissimo!) ma fortunatamente con una doppia dose di antibiotici è guarita (spero sia sparita del tutto), però ho avuto il mio bel da fare a giostrare con la logistica della città, le cose che sto facendo e la forte stanchezza causata da questa cosa …
– Ho passato il giorno di Pasqua con Mario, la mia migliore amica americana Nora e il suo fidanzato, a mangiare i famosi pancakes con mirtilli di Nora e finalmente a sentirmi in famiglia e con le persone a cui voglio più bene.
– Ho comprato delle scarpe-sandali estivi di cui sono contentissima, un giubbino di jeans e un vestito optical, con rapporto qualità prezzo eccellente (non mi piace molto fare shopping, però devo dire che ho un occhio fino, e quando non cerco riesco sempre a trovare la cosa di qualità col prezzo giusto, o spesso con un super affare!).
– Ho tagliato i capelli dalla mia parrucchiera brasiliana che l’anno scorso mi è piaciuta tanto, ma questa volta non sono stata molto soddisfatta, e poi mi sono tagliuzzata i capelli da sola per personalizzarmi il taglio (non li volevo corti, ma nemmeno così lunghi come erano, li voglio di differenti lunghezze … ) … forse devo pure ritornarci, perché anche con questi ultimi ritocchi non è che sia proprio un granché (però meglio di quando erano lunghi e dritti come prima, che non si addicono al mio viso e al mio carattere).
– Ho preso il bus per Montreal (sono arrivata ieri sera) perché, dovendo preparare la nuova performance del 16 aprile (per la quale sto creando un video da proiettare live) ho bisogno di stare al computer tutto il giorno, per cui ho pensato è meglio farlo a Montreal condividendo almeno la sera con Mario – che poi partirò per l’Italia e non si sa quando ci rivedremo – che non stare a Manhattan chiusa in casa nella piccola stanzetta (però anche Mario qui si è preso una casa che è microscopica e buia … ).
Beh, ciò che mi piace di New York è che si riescono a fare cose come in un anno altrove, anche se tutto però è molto faticoso, e questa volta ho sentito molto alcuni difetti e alcune cose difficili di questa città, e, a dirla tutta, Manhattan a volte mi sembra quasi in ‘decadenza’, turistica, superata (ho questa impressione netta, e la sto sentendo da alcune altre persone, sia che vivono qui o che ci vivevano. Qualche fermento nuovo c’è in Brooklyn, ma credo che i tempi d’oro della grande mela forse siano acqua passata (o no?).
Ah, e poi ho scritto un sacco di blog … !! Guardare post passati per credere 😉
Come molti di voi già sanno, sto lavorando da più di un anno al nuovo step del progetto ‘The Finger and the Moon(che sarà il #3), e si terrà a Genova il 19 maggio di quest’anno (non vi preoccupate, rientro in Italia per tempo, anzi un mese prima e mi piazzerò a Genova per mettere a punto tutto il lavoro di preparazione e di coinvolgimento delle persone … Intanto però qui a new York ho trovato ispirazione per fantastici preparativi anche per questo progetto!).
E’ un ampio progetto che comporta un lavoro di equipe, e che coinvolgerà moltissime persone in una performance collettiva.
Nel frattempo, come regalo in anteprima (ah, se accedete al sito e fate una anche pur piccola donazione, riceverete in cambio dei lavori firmati del progetto … E spero con tutto il cuore che ne rimarriate contenti!) come regalo in anteprima, dicevo, vi metto alcune foto della serie sui templi/chiese che sto facendo qui a New York. Enjoy! (come dicono qua per quasi tutto, e a me piace molto questa espressione).
Liuba – The Finger and the Moon #4 – new photo series (all right reserved)
*AGGIORNAMENTO: queste foto della serie The Finger and the Moon #4 sono state usate anche per formare, stampate su tessuto, l’abito della nuova performance The Finger and the Moon #3. che avrei fatto a Genova pochi mesi dopo (v. The Finger and the Moon Project)
Come vi dicevo nel post precedente, alcuni giorni fa sono andata a Flushing, capolinea della linea 7 nel Queens.
Mi avevano detto che in quella zona c’era un’area piena di templi di ogni religione, uno accanto all’altro. Poiché ciò mi interessa molto, per il progetto delle religoni che sto sviluppando, e per la serie fotografica a cui sto lavorando qui a New York sulle varie – e strane – e numerosissime chiese, e templi, e luoghi di culto di ogni ordine e grado, ho preso la mia metro e sono andata in fondo al Queens a Flushing.
Devo premettervi però, per darvi l’idea dei miei ‘feeling’, che nei giorni precedenti era piena primavera, con sole tipo maggio e un’esplosione di fiori. Vi metto la foto, finalmente mi sono comprata una buona macchina fotografica da tasca e giro facendo le foto … , mentre quel giorno, poco dopo essere uscita, mi ero accorta che era inaspettatamente freddo ed ero vestita inadeguata (ma non avevo voglia di tornare indietro a cambiarmi). Inoltre, il cielo era cupo e grigio e umido, come i giorni di autunno a Milano …
Con questo sfasamento metereologico nelle ossa e un po’ infreddolita, scendo dalla metro 7 accompagnata da un fiume di gente e mi trovo in mezzo a una super brulicante altra Chinatown dove faccio straordinarie foto di cibo ammassato sulle strade e cheap chino take away food (mamma mia … ), che vanno bene per il mio progetto sul cibo, ma mi mettono un po’ di depressione (queste foto sono un progetto artistico inedito, e non ve le metto qui … 🙂
Rimango attonita al vedere un formicolio di gente, di cose, di volti, di tutte le razze ma tutti grondanti povertà e fatica. Vado un po’ di qua e di là, ma non c’è traccia dei templi, o almeno io non trovo nulla. Chiedo alle persone, ma non trovo quasi nessuno che parla inglese (?!), quei pochi che lo parlano mi guardano diffidenti quasi mandandomi a quel paese con gli occhi.
Gli occhi. Ho girato e rigirato per quelle strade infreddolita alla ricerca dei templi, e vedevo occhi spenti, occhi zombi, occhi vuoti, occhi arrabbiati, occhi depressi, occhi rassegnati …
Percepivo e sentivo sulla mia pelle la fatica di vivere, l’abbruttimento della miseria, la diffidenza di chi ‘resiste’ e non pensa … Questi corpi, questi occhi, queste energie mi erano entrate dentro la pancia e vagavo per le strade di Flushing assorbendo tutte queste vibrazioni e sentendomi anch’io contagiata, arrivando a sentirmi piccola, fragile, brutta, sola, inutile … Non ho mai visto una concentrazione così fitta di persone abbruttite dalla vita.
Non ho visto qui la miseria nera che si può trovare in altre zone del mondo, ma la noia la cattiveria la diffidenza e l’abulia di chi fa una vita dura, di chi fa una vita piena di fatica e poca gioia, di chi è abituato a stare nel ghetto (nei margini lottando per non sprofondare) e diventa di pietra per sopportarlo … Sento ancora quelle sensazioni addosso, e vedo ancora quegli occhi vuoti senza pupille spenti dalla vita.
Sono stata malissimo. Purtroppo o per fortuna ho delle antenne sensibilissime, ultra sensibili, per captare le energie e le cose che non si vedono – ma che ci sono. Questa sensibilità mi aiuta a penetrare i livelli di profondità dell’esistenza, a percepire istintivamente le persone, a capire e sapere le potenzialità e le energie dei luoghi, ad avere un intuito sottilissimo … però fa sì che spesso io sia contagiata da queste onde sottili e mi accorgo a volte di assimilarle, senza potermi difendere, come se un grande vento mi arruffasse i capelli e non ci puoi fare niente ( i capelli tornano a posto solo quando vai via dal flusso del vento … ).
Spesso mi accorgo che gli altri non lo vedono questo ‘vento’, ma io lo percepisco spesso, lo sento, e a volte non riesco a difendermi se non andando via. Ciò mi capita ovunque: a Milano per esempio, quando percepisco le ondate di stress della città che mi si sbattono in faccia impedendomi a volte di pensare anche se sto tutto il giorno in casa, o quando devo spostare un letto per riuscire a dormire … sono una dormigliona e non ho mai problemi a dormire, ma a volte mi capita di dormire in letti – e sapete che viaggio parecchio … – in cui non prendo sonno e rimango con gli occhi sbarrati sentendo energie che mi impediscono di dormire … poi ho imparato che risolvo la faccenda spostando in qualche modo il letto o spostando la direzione in cui dormo, e subito mi addormento.
Allora, l’altro giorno nel Queens è stato doloroso e drammatico, ho vagato anch’io come una zombie – e non ho trovato la zona dei ‘templi’, solo qualche chiesa o sinagoga o tempio sparso qua e là, come ovunque a New York. Sono tornata a Manhattan e ho vagato tutta la sera come una zombi anch’io, senza meta e senza senso (ricordo di essere andata verso Wall Street per un supposto concerto a Trinity Church alle 7 che non c’era, poi ho preso il treno per Brooklyn, ho preso un caffè e sono tornata indietro, ecc… ecc … ).
Questo è il risultato della giornata a Flushing…vi pubblico questa foto in anteprima. All right reserved.
New York è 20 città al tempo stesso, ci sono zone giganti, zone ricchissime, zone solo di lavoro, zone di business, zone di vita di strada, zone di divertimenti, zone di certe categorie di negozi, zone sporche, zone verdi, zone rumorose, zone tipo paese, zone ultratecnologiche, zone afroamericane, zone russe, zone cinesi, zone coreane, zone ebraiche, zone ispaniche, zone indiane, zone commerciali, zone residenziali, zone di gallerie, zone di teatri, zone di barche, zone di disperazione, zone di gioventù, zone di milionari, zone di reazionari, zone di vacanza, zone di fatica, zone di depressione, zone di euforia … e ovunque tanta gente, tanta umanità, miriade di storie, talenti, sentimenti, capacità, idee, consumi. Numeri immensi, così come spazi immensi, giganti, e movimenti e flussi senza fine. La vita scoppia gira esplode giganteggia soffre esulta ama cade e sussurra in questa metropoli che è il mondo, e che non si ferma mai.
(Testo scritto sempre sul bus cinese, di notte, sul mio quadernino, mentre tornavo da Washington).
Ecco finalmente vi scrivo, sono nel mio angolino magico a Coney Island, che mi sono conquistata (ossia ho procrastinato varie cose e mi sono fatta più di un’ora di metro – anzi un’ora e mezza perché c’era un guasto) e sono venuta qui per ricaricarmi, e anche scrivere.
Scrivo sul quadernino, poi lo dovrò copiare, che poi ho anche il computer dietro nello zainetto, ma non è il caso di usarlo sulla spiaggia … sì sono davanti al mare, seduta sullo scoglio col sole davanti: oggi è una giornata stupenda, so che il week-end sarà più bruttino e piovoso (dovrò andare a Washington, ma non è un problema, ci vado per vedere il caro amico Mengoz dopo tanti anni!! – Prima coabitazione di casa a Bologna, primo anno di Università …) e quindi ho seguito il mio corpo, il mio istinto e la mia necessità e sono venuta a Coney Island.
Amo questo posto, prendi la metropolitana da Manhattan e ti fai tutta Brooklyn, ma poi il treno ti lascia a pochi metri dall’Oceano (certo che dire questa parola fa effetto, ma è proprio così che si chiama … ).
Sono arrivata qui per pensare, respirare, sentire il mio corpo, trovare un silenzio per decidere, prendere lentezza (una cosa molto stancante di New York è che è rumorosissima, anche se a volte tutti quei rumori sono gioiosi, perché è una vita che scoppia ovunque in questa città mai ferma).
Ieri sono stata nel Queens, al capolinea della linea 7, a cercare la zona dei templi multi religiosa per il progetto fotografico-performativo sulle religioni (+ tante foto per il nuovo progetto sul cibo che sto facendo) ed è stata una giornata molto dura.
Vi racconterò in un post a parte prossimamente, della miriade di persone, della disperazione che ho visto, degli occhi vuoti delle persone, della fatica di vivere che ho sentito e percepito sin dentro le midolla e di come io ne sia stata penetrata e mi sia sentita uno straccio, e di come NYC siano almeno 20 città diverse, e di come la moltitudine di volti, persone, numeri sia impressionante ovunque, e di come ci sia gioia e disperazione e disponibilità e diffidenza in uno scambio senza sosta e imprevedibile …
Ma oggi invece vi racconto di Coney Island. E’ un posto che amo (forse l’ho già detto, ma fa niente, lo ripeto!) Primo: c’è il mare e c’è la spiaggia. A New York fortunatamente c’è il mare da tutte le parti, ma le spiagge sono rare, oppure lontane. Secondo: c’è la spiaggia, ed è puntata verso sud (credo), ossia vado là per prendermi il sole in faccia guardando il mare, e da trequarti riminese quale sono, per me prendere il sole nelle ossa su sabbia e/o scoglio, è un cibo primario ed ineludibile. Terzo: è un posto assurdo di contraddizioni mass popolari, col nuovo e il decandente, la desolazione, il lavoro, l’ilarità e la multiculturalità della vita americana più provinciale e suburbana ma al tempo stesso metropolitana.
Quando sono arrivata, invece del sole sfavillante che c’era a Manhattan c’era una nebbia quasi felliniana: tutto bianco, ovattato, annebbiato, ma non freddo. Il mare non c’era. Nebbia bianca ovunque, e la sirena (si sente anche a Rimini quando c’è la nebbia) che suonava ritmata. La nota felliniana era che in mezzo a tutta sta nebbia bianca e fumosa, c’era gente ovunque, anche in costume da bagno, sdraiata sulla sabbia o che giocava a pallone come se niente fosse (per me era freddino senza il sole … siamo a marzo d’altronde, anche se col sole c’erano 28 gradi!, ma senza molto meno … )
Quindi, uscita dalla metro e vedendo sta grande nebbia, mi sono detta: ok, non posso prendere il sole e scrivere sulla spiaggia, quindi farò come fanno gli americani: vado a mangiare i famosi hot dog da Natan’s (da specificare che io di solito non mangio il maiale), e anzi, per la prima volta da quando sono qua, mi prendo il full meal con tutte le schifezze, voglio proprio provare a vedere come si sta: patate strafritte, hot dog con panino dolce, coca gigante (sì anche quella) e tutto nelle scatole, come fanno qui, to ‘take away’.
Mi sentivo ridicola, con zainetto che cadeva, le scatole del cibo in mano e faticosamente tenendo la big coca cola, nell’atto di spiacciccare le salse varie nel pacchetto e incamminarmi goffamente verso la panchina davanti alla spiaggia a mangiarmi il mio cartoccio. D’altronde qui sto cominciando un progetto sul cibo (non ve ne ho ancora parlato perché è nuovo nuovo e perché è sul nascere, ma anche perché non voglio svelare molto … ) e tra le tante contraddizioni l’uso del cibo spazzatura è un’abitudine che permea l’America nelle midolla…
Capisco anche perché è nata la Coca Cola e perché qui per abitudine si mangia con la coca cola: perché è uno sturalavandini! Mangiando tutti quei grassi e zuccheri e cibo artefatto e soffritto ci vuole una trivella digestiva che ti faccia buttare giù il cibo … Devo dirvi però che, dopo due ore che avevo mangiato, coca o non coca, il cibo era ancora nella parte più alta dello stomaco, gnucco gnucco.
Parentesi cibaria a parte, poi il sole è ritornato, mi sono messa a scrivere e pensare e mi sono ricaricata , per poi continuare una giornata intensissima, sono tornata a Manhattan mi sono messa a lavorare un paio d’ore al computer da starbucks e poi sono andata a Brooklyn al Grace Exhibition Space, a vedere tre performances, e a parlare con la gallerista Jill riguardo alla nuova performance che probabilmente farò da loro (voglio sviluppare un ‘duetto’ insieme con Harry, lo scrittore, che scrive testi meravigliosi basandosi sui miei video e i miei progetti … ).
Parlare con Jill è stata una gioia, perché, nonostante siamo cresciute in parti del mondo molto distanti, abbiamo avuto un background simile ed entrambe portiamo avanti la performance art come il massimo sviluppo delle nostre potenzialità artistiche, e abbiamo entrambe vissuto i periodi – non molto tempo fa – quando la performance la conoscevano in pochi ed era fuori dai venue artistici principali. Sì anche a New York, non solo in Italia. Ora siamo entrambe contente che da qualche anno la scena artistica internazionale ha riscoperto la performance art e le sta dedicando l’attenzione che merita. E’ come se si stesse assistendo a una rinascita di questa forma d’arte, e ne siamo tutti naturalmente felici. Tanti sono stati gli anni quando a chi ti chiedeva cosa facevi e rispondevi ‘performance’ vedevi la loro faccia inebetirsi e chiedere cos’era o se assomigliava alla danza o a cosa … oppure i galleristi che dicevano: interessante, ma cosa vendo? – Beh, anche oggi non è che la performance navighi nell’oro, ma ogni serio movimento artistico del passato non è mai nato pensando a cosa vendere, semmai al contrario cercando di demolire il sistema del commercio e del mercato dell’arte, o quanto meno criticandolo.
Sono rientrata a casa riprendendo il treno fino a Manhattan, e poi la bici alla fermata Delancey … molto stanca ma molto contenta (a Coney Island ho anche girato delle riprese molto emozionanti e petiche che un giorno mi serviranno per un nuovo lavoro video, che è già bello lì pronto nella testa e nel cuore! (La mi testa frulla sempre e pullula di idee e di possibilità, però realizzare tutto è molto complicato, e molto lento, ma io vado avanti a poco a poco, a volte lenta, a volte correndo, ma sempre, dico sempre, cerco di realizzare tutte le idee che vedo nella mia testa (anche perché una volta che appaiono non vanno più via, e ternerle tutte e accumularle lì fa male … per quello che cerco, per quanto possibile, di fare prima o poi tutto ciò che penso o desidero realizzare … ).
(Il lunapark di Coney Island – forse il più vecchio al mondo – riapre i battenti … ).
Stavo passando per Union Square, anzi ero seduta sui gradini per un pic-nic estivo sotto il sole, bellissimo di questi giorni, quando ho visto radunarsi un gruppo di donne tibetane, che andava sempre aumentando, poi sono arrivati gli striscioni, poi la protesta vera e propria è iniziata, e anche toccante: Al grido “China lies, Tibetans die”, free Tibet, centiania di Tibetani hanno dimostrato per sensibilizzare il mondo sul problema immenso dell’invasione della Cina in Tibet e sui maltrattamenti e la mancanza di libertà e di religione che il regime cinese gli ha imposto.
Ho parlato con qualche donna, erano davvero arrabbiate, la protesta è cresciuta e si è trasformata quasi in una performance, ben preparata, con molte persone a gridare slogan di libertà per il Tibet. Ero seduta a mangiare quando il mondo è piombato sopra i mei piedi (letteralmente, io ero seduta sui gradini a mangiare la mia insalata, e miriadi di donne con cartelli, e poi monaci e molti altri, sono arrivati e si sono sistemati intorno a me per la protesta).
Mi sembra importante riportarlo sul mio blog, perché la causa del Tibet mi sta molto a cuore, come mi sta a cuore ogni persona e ogni paese che lotta per i propri diritti.
Free Tibet protest held in New York
Members of the Tibetan community living in the United States and also people from other countries around the world joined in a demonstration held in Union Square against China where they demanded a ‘Free Tibet’.
Per associazione, o per simpatia, pubblico anche questo testo che riguarda la protesta in Val di Susa, che mi è stato inoltrato in una e-mail. Nè del Tibet nè della Val di Susa ho informazioni dirette, viste coi miei occhi, nè sono stra informata, però ho deciso di pubblicare questo testo perché mi sembra molto ben documentato e la testimonianza di chi in Val di Susa ci è stato davvero. Merita di leggerlo sino in fondo
Siamo stati in Val di Susa ed abbiamo capito
Siamo stati in Val di Susa ospiti degli abitanti della valle:
insegnanti, agricoltori,
pensionati, studenti e abbiamo visto:
Un luogo attraversato da due
strade statali, un’autostrada, un
traforo, una ferrovia, impianti da
sci, pesanti attività estrattive
lungo il fiume
Persone che continuano
a curare questo territorio già affaticato da
infrastrutture ed attività
commerciali e cercano di recuperare un
rapporto equilibrato con
l¹ambiente e la propria storia.
Una comunità che crede nella
convivialità e nella coesione sociale e
coltiva forti rapporti
intergenerazionali.
Abbiamo capito che in Val di Susa non è in gioco
la realizzazione
della ferrovia Torino-Lione, bensì un intero modello
sociale. Un
popolo unito e coeso, una comunità forte non può essere
assoggettata a
nessun interesse nè politico, nè economico. E¹ interesse
di tutti i
poteri forti dividere, isolare, smembrare per poter meglio
controllare
e favorire interessi particolari.
Abbiamo capito perché
tutto l¹arco costituzionale vuole la TAV, non è
dificile, basta
guardare alle imprese coinvolte:
Cmc (Cooperativa Muratori e
Cementist) cooperativa rossa, quinta
impresa di costruzioni italiana,
al 96esimo posto nella classifica dei
principali 225 «contractor»
internazionali che vanta un
ex-amministratore illustre, Pier Luigi
Bersani, si è aggiudicata
l¹incarico (affidato senza gara) di guidare
un consorzio di imprese
(Strabag AG, Cogeis SpA, Bentini SpA e Geotecna
SpA) per la
realizzazione del cunicolo esplorativo a Maddalena di
Chiomonte.
Valore dell¹appalto 96 milioni di Euro.
Rocksoil s.p.a
società di geoingegneria fondata e guidata da Giuseppe
Lunardi il quale
ha ceduto le sue azioni ai suoi familiari nel momento
di assumere
l¹incarico di ministro delle Infrastrutture e dei
trasporti del governo
Berlusconi dal 2001 al 2006. Nel 2002, la
Rocksoil ha ricevuto un
incarico di consulenza dalla società francese
Eiffage, che a sua volta
era stata incaricata da Rete Ferroviaria
Italiana (di proprietà dello
stato) di progettare il tunnel di 54 Km
della Torino-Lione che da solo
assorbirà 13 miliardi di Euro. Il
ministro si è difeso dall¹accusa di
conflitto di interessi dicendo che
la sua società lavorava solo
all¹estero.
Impregilo è la principale impresa di costruzioni italiana.
È il
general contractor del progetto Torino-Lione e del ponte sullo
stretto
di Messina. Appartiene a:
33% Argofin: Gruppo Gavio. Marcello
Gavio è stato latitante negli anni
92-93 in quanto ricercato per reati
di corruzione legati alla
costruzione dell¹Autostrada Milano-Genova.
Prosciolto successivamente
per prescrizione del reato.
33% Autostrade:
Gruppo Benetton. Uno dei principali gruppi
imprenditoriali italiani
noto all¹estero per lo sfruttamento dei
lavoratori delle sue fabbriche
di tessile in Asia e per aver sottratto
quasi un milione di ettari di
terra alle comunità Mapuche in Argentina
e Cile
33% Immobiliare
Lombarda: Gruppo Ligresti. Salvatore Ligresti è stato
condannato
nell¹ambito dell¹inchiesta di Tangentopoli pattuendo una
condanna a 4
anni e due mesi dopo la quale è tornato tranquillamente
alla sua
attività di costruttore.
Abbiamo capito che l¹unico argomento rimasto
in mano ai
politico-imprenditori ed ai loro mezzi di comunicazione per
giustificare un inutile progetto da 20 miliardi di euro mentre
contemporaneamente si taglia su tutta la spesa sociale è la
diffamazione. Far passare gli abitanti della Val di Susa come violenti
terroristi. Mentre noi abbiamo visto nonni che preparavano le torte,
appassionati insegnanti al lavoro, agricoltori responsabili,
amministratori incorruttibili.
Abbiamo capito che questo è l¹unico
argomento possibile perchè ormai
numerosi ed autorevoli studi, di cui
nessuno parla, hanno già
dimostrato quanto la TAV sia economicamente
inutile e gravemente
dannosa.
Dopo l’Opening dell’Armory Show e quello di Volta NY, di cui vi ho parlato nel post precedente, il venerdì sono stata all’Opening di Fountain Art Fair. Sono uscita molto tardi di casa perché sono stata tutto il giorno coi sentimenti sul ricordo dello zio Elio e sul contatto con la mia famiglia in Italia, e non ho visto nessuna delle altre fiere che mi ero ripromessa per oggi. Però l’Opening di Fountain era dalle 19 in poi, così, anche per distrarmi, sono uscita. Inoltre avevo parecchie aspettative riguardo alle performances, poiché sapevo che c’era una speciale sezione di performances, che avrebbero avuto luogo in serata.
L’edificio in cui era ospitata la fiera era impressionante e inquietante al tempo stesso: si trattava di un Armory, una specie di caserma immensa, che ha un grandissimo spazio centrale a volta dove, mi hanno detto, nell’ ‘800 venivano conservate le armi e il materiale bellico … (viste le dimensioni, si trattava anche di cannoni e quant’altro … ).
Il risultato era un po’ paradossale perché, appena entrati alla Fiera, ci si metteva le mani nei capelli al vedere lo scarruffio delle opere e la insulsa vacuità di quasi tutto ciò che era esposto. (Non ho mai visto una fiera più arraffata e come un supermarket di art and crafts di bassa qualità, commerciale al massimo e, come si dice a Milano, come “la fiera degli obei obei”!) Poi guardavi in alto e vedevi questa struttura in ferro dell”800, immensa, bella ma inquietante sapendo l’uso a cui era destinata, e guardando in basso vedevi il mercandizing più frivolo di ogni possibile prodotto umano immaginabile (prendi qualsiasi materiale, fai un minimo di assemblaggio, ed esponi). Un accostamento stridente, in un certo verso anche piuttosto ‘underground’.
Non voglio togliere nulla ai pochi lavori magari interessanti che c’erano (difficili da cogliere perché disgustati dall’insieme, il tempo massimo da dedicare alla visita era di 10 minuti).
Ciò che però mi incuriosiva, è l’anima di una certa America, che qui era rappresentata in pieno: la leggerezza, il commercio, la vendita, lo stupore per qualsiasi cosa, il kitsch, l’entusiasmo dirompente solo per il fatto di esserci …
Mi sono un po’ stupita, perché mi aspettavo da questa fiera, che doveva riunire la maggioranza delle gallerie di Brooklyn (Williamsburg, Buswich, Greenpoint .. .i quartieri dove oggi a New York ci sono le gallerie giovani e sperimentali e quella più ‘cool’) un insieme di proposte innovative, anche non convenzionali ma ‘fresche’. No, invece molte ma molte ‘croste’ (sempre senza nulla togliere all’entusiasmo di chi esponeva, che era contento così, e senza nulla togliere a qualche opera manuale di buona fattura), la maggior parte super ‘naive’. Evidentemente, le migliori gallerie di Brooklyn non hanno esposto qui.
La sezione delle performance non era male però. Ossia, ne ho viste due, una era una schifezza, mentre l’altra molto bella, interessante, ben fatta. Si trattava di una cena sentimentale a due con una parete divisoria in mezzo, intitolata “The wall between us” di Caridad Sola e Thomas Solomon. Il tutto montato in maniera estetica e professionale, e con una discreta dose di concetto godibile da percepire. Detto così so che non vi dice niente, ma non ho fatto foto. Ho girato tutti questi giorni delle mostre senza la macchina fotografica: un po’ perché volevo vedere coi miei occhi e pensare – mentre quando si fotografa si vede con un occhio solo e si pensa all’immagine – e anche perché sto cercando faticosamente di comprarmi una nuova macchina fotografica … ).
Dentro alla mostra mi sono vista col mio amico Regi (ci siamo conosciuti l’anno scorso mentre lui faceva le foto quando presentavo i miei video a Bushwich), e dopo la performance siamo andati a raggiungere la mia amica Marie in un altro opening (non vi dico dov’era perché si è rivelata una cosa rocambolescamente dilettantesca … però le persone lì mi sono simpatiche), e, sotto mio stimolo, quando siamo usciti, siamo andati a mangiarci qualcosa insieme. Ho detto ‘sotto il mio stimolo’ perché per noi italiani è ovvio mangiare insieme, e cosa di grande socialità, ma in molte altre parti del mondo non si avverte questa cosa, e qui è strano perché tutti mangiano fuori – a ogni ora e a ogni dove ci sono miriadi di posti dove mangiare di tutto, la maggioranza li prende ‘take away’ e te li mettono in delle scatole di plastica per portare il pasto a casa – però non c’è molto l’abitudine di cucinare insieme o mangiare insieme (se non per un ‘dating’ ossia un corteggiamento o evento romantico).
Ah, poi vi volevo parlare della fiera The Indipendent, che ho visto il giorno successivo. Finalmente! Ossia: finalmente una bella Fiera, finalmente lavori interessanti e qualche progetto di ricerca, e qualche contenuto, e opere con materiali più innovativi o con idee originali ed emozionanti. Già mi avevano parlato molto bene di questa fiera, e l’ho confermato coi miei occhi. La mia amica curatrice Oxana, che ho incontrato in giro per gli Opening (lei era, come molti, venuta apposta dall’Italia per la New York Art Week), quando ci siamo incontrate a Fountain Fair, tutte e due inebetite per la incredibile pessima qualità degli stand, mi ha detto che al confronto The Indipendent era come Art Basel … !
Anche la location in Chelsea nell’ex Dia Center era azzeccata. Era insomma una bella fiera, però me la sono girata in maniera leggermente malinconica e non me la sono goduta molto. Ero ancora triste della perdita dello zio e soprattutto mi sentivo nostalgica, sentivo la mancanza dei miei affetti forti, della mia famiglia, di Mario, la grande città a volte ti fa sentire come una formichina … Poi però una telefonata di mezzora con Mario (che la settimana prossima viene a New York) mi ha ritirato su il morale e il magone è passato, ho incontrato Eric e insieme siamo andati ad altri opening a Brooklyn (ho adorato la mostra da Pierogi, una galleria di Williamsburg di cui apprezzo tantissimo il lavoro).
Quando ho lasciato Eric, che si avviava verso la stazione dato che abita fuori città, erano circa le 10.30/11 di sera ed ero stanca morta, i piedi mi bollivano dal gran camminare (Chelsea, Brooklyn, Meat District, e via dicendo, su e giù … ). Quindi prendo il bus 14 (ovviamente il bus 14 passa per la 14ma strada!), scendo in avenue C e mi avvio a piedi verso casa, pensando che forse mi sarei bevuta una birretta nel pub all’angolo, dato che era sabato sera e dato che avevo una gran sete. Ma ecco che come al solito accade qualcosa di inaspettato: sento uscire una musica rock bellissima da un locale, e naturalmente ci entro: il posto era un pub semplice, con uno spazio per la musica, non molta gente, e i musicisti avevano un ritmo e una musica che mi ha coinvolto e magnetizzato … morale della favola, abbiamo fatto le 4 di notte ballando e divertendoci un casino! Parlo al plurale, anche se ero entrata da sola … parlo al plurale perchè eravamo dentro questo pub in 7 o 8 persone, più 6 – dico 6 – musicisti della banda, ed io, che non so resistere quando la musica è buona ed emana energia, ho cominciato a ballare, e poi tutti gli altri, in un crescendo di energia, si sono messi a ballare (la band ha poi ammesso di aver percepito questa energia e di aver suonato ancora meglio), semplicemente, allegramente, tutti come amici di lunga data, tutti entusiasti di essere lì, di sentirci vicini, di scambiarci i biglietti da visita, e poi sapere che forse non ti vedi più, perchè New York fagocita tutto e ti dà tutto. Ma intanto ti senti al settimo cielo e in sintonia perfetta con dei perfetti conosciuti, come se fossero amici da tempo (oddio, penso a Milano come la gente solitamente sia rigidina e bloccatella, e mi viene da ridere … ). Poi se non li vedi più o no, è un’altra storia. (Però il musicista il giorno dopo mi ha telefonato, e siamo andati a giocare a biliardo. ossia: voleva insegnarmi il biliardo, come anche Mario ha tentato di fare, ma mi sento così goffa con quella stecca in mano che non riesco proprio a divertirmi molto …
Conclusione: domenica ero in low energy dopo questo sabato ricco come fossero 4 giornate differenti (ah sì, ricordo anche che tornata a casa, più delle 4 di notte, mi sono pure messa a scrivere e-mail … ) ed ero cotta come una campana, nonostante avessi dormito tutto la mattina. E domenica è stata una giornata lenta, riposante, quasi offuscata dalla stanchezza e dai troppi stimoli. Quindi il corpo dice: letargo! Ed io eseguo …
In ricordo dello zio Elio Pagliarani, caro, immenso, importante per me e per tutti noi. Ho saputo oggi che è partito per il Grande Viaggio.
Grazie per tutto quello che ci hai dato zio, e grazie per tutto ciò che mi hai insegnato.
Che il tuo viaggio sia lieve e felice.
Scriverò in seguito sulla sua poesia, su come ci ero affezionata, su come sia stato un grande maestro per me.
Ora preferisco che lo ricordiamo guardando i suoi video e leggendo i suoi testi.
Elio Pagliarani, poesia tratta da “La merce esclusa”
Problema: un ragazzo vede conigli e polli in un cortile
Conta 18 teste e 56 zampe …
Quanti polli e conigli ci sono nel cortile?
Si consideri una specie di animale a sei zampe e due teste: il conigliopollo;
ci sono nel cortile 56 zampe: 6 zampe = 9 coniglipolli
Nove coniglipolli che necessitano di 9 × 2, 18 teste
restano dunque 18 – 18, 0 teste nel cortile
laurea in filosofia poi lo cacciarono via
non che violasse le leggi è che dissero basta
la famiglia gli amici gli esempi dei libri di testo. La sua testa
avrebbe potuto lucidissimamente, in realtà fu lui che non volle demandò alla vita
la grandezza di lavoro umano linguistico generico medio
Ma questi animali hanno 9 × 6, 54 zampe allora 56 – 54 = 2 Restano due zampe nel cortile
Si consideri quindi un’altra specie di animale che potrebbe essere il coniglio spollato che ha
1 testa – 1 testa = 0 testa, 4 zampe – 2 zampe = 2 zampe: le due zampe che stanno nel cortile
la grandezza di lavoro umano linguistico generico medio
con il naso giusto, un’altezza che supera la media
non che vita non fosse anche nell’aule
dei suoi vent’anni trenta
non era ancora stato richiamato sotto le armi forse perché non sapevano bene dove metterlo
c’è dunque nel cortile 9 coniglipolli + 1 coniglio spollato Detto in altri termini
9 conigli + 9 polli + 1 coniglio – 1 pollo Ed ora i conigli coi conigli e i polli coi polli, si avrà
9 + 1, 10 conigli, 9 – 1, 8 polli
Risultano otto polli e dieci conigli nel cortile
e può essere immesso nella circolazione linguistica
come portatore di tale valore In termini di lavoro
la grandezza di lavoro umano linguistico generico medio
con cui si misura Dio
con cui si misura Dio in termini di lavoro
ridono le ragazze, ondeggiano sopra tacchi di sughero”.
Ieri notte quando vi ho scritto dell’Opening all’Armory era così tardi che ho terminato il post, ma avrei molte altre riflessioni da farvi.
Una è che, nella selva dei big colossi, c’erano anche alcune gallerie – ma solo alcune – giovani e con lavori un po’ più ricercati e interessanti degli altri. Una galleria inglese mi ha colpito, presentando un solo show di una giovane artista che lavora, in maniera molto sobria ma elegante, con i residui dei colori delle cose che lasciano sulle carta o il tessuto o la parete (un lavoro che mi è piaciuto è una bottiglia di plastica, vuota, di una ‘soda’ gasata, di quelle bevande piene di schifezze, da cui usciva una maglia tutta stramacchiata. Il gallerista mi ha spiegato che l’artista ha immerso una t-shirt bianca in questa bevanda, appallottolandola nella bottiglia, e le macchie sono il risultato della corrosione del liquido. Un’opera quindi, ‘impressa’ da un agente chimico, e dagli acidi corrosivi che la gente si beve …
Sempre all’Armory Show riflettevo che la maggior parte delle opere esposte in questa edizione, si suddivide in due categorie: c’è una serie di lavori che giocano sul gigantismo, sulla preziosità dei materiali, sull’eleganza estetica (spesso del supporto). Emblematica potrebbe essere la fotografia di un orso-bruno-con-faccia-simpatica ingrandito a formato 2 metri per 3, o giù di lì. Sì avete capito bene, la foto di un animale come quelle che facciamo noi quando andiamo in uno zoo (mi è naturalmente venuta in mente la serie di foto all’orso, polare e bruno, che avevo fatto in un parco in Canada – mo mi è venuta la voglia di mettervele! … Peccato che non ricordo il nome dell’artista che ha esposto la foto dell’orso, nè la ho fotografata, perché sarebbe stato divertente il confronto!).
(foto scattate in un parco zoo in Quebec)
Dunque dicevo, una serie di lavori gioca, in funzione della vendita, sul gigantismo della produzione e la cura della confezione. Un altra parte di lavori, sempre e molto in funzione della vendita, ma almeno sono più ‘intriganti’, giocano sul fattore meraviglia e sorpresa: oh, come avrà fatto a fare questo effetto! che figo! E via dicendo. C’erano lavori che certo sono esteticamente e intellettualmente gradevoli e stimolanti, come quello di ‘nuvole’ dentro dei cubi di plexiglass (vedevi come una nuvola, mentre invece erano delle lastre trasparenti di plexiglass giustapposte, ciascuna con una chiazza porosa e bianca, che tutte unite davano il senso della tridimensionalità e della leggerezza. Belle da vedere e poetiche, certamente. Bella idea e bella tecnica. Però poi finito. Altri lavori ad effetto ‘meraviglia’ sono complicatissime sculture con tappi o materiali vari, dipinti naturalistici fatti con lo scotch, e via dicendo. Sembra che queste cose si vendano molto bene …
Scusatemi, ho guardato solo la parte artistica dei lavori e la qualità delle gallerie. Non mi sono informata su come va il mercato dell’Arte, se si vende o no. Forse ciò vi incuriosisce, vedrò se nei prossimi giorni mi ricordo di chiederlo ..
Oggi, con molta calma perché ieri notte mi sono messa a dormire alle 5 per finire di scrivere il blog ed ero davvero molto stanca, sono andata all’opening del Volta NY. Oggi sono riuscita entrare come ‘press’ e ho un pass fiammante valido per due persone. Appena arrivata su (perché è all’ 11°piano) mi sono messa le mani nei capelli: stand pieni di brutta pittura e di commercialissimo ‘stuff’ (parola inglese che adoro, che significa ‘cose’ ma anche molto altro, tutto ciò che fa numero).
Pensavo di fare un giro di 10 minuti e poi andarmene, quando vidi una galleria tedesca che presentava i lavori di una coppia di artisti turchi concettuali molto ma molto interessanti. Feci una lunga chiacchierata col gallerista (di Francoforte ma che parlava un ottimo inglese) molto stimolante.
Guardando bene la fiera ho trovato invece alcune gallerie molto interessanti, una minoranza a dire il vero, in mezzo a proposte commercialissime, ma una minoranza di qualità. Per lo più le gallerie che esponevano lavori interessanti erano di lingua tedesca (anche una austriaca e una di Basilea si distinguevano), molti di matrice concettuale e sociale.
La cosa interessante di Volta NY è che le gallerie dovevano portare un solo artista, ossia delle piccole – o grandi, a seconda dello stand – personali. Questo ha reso questa fiera, nel percorso di qualità, come visitare una museo, e questo l’ho molto apprezzato. Ossia, la maggioranza di gallerie era lì con prodotti soltanto commerciali ed estetizzanti (una valanga di mediocre pittura, di lavori decorativi, o molte opere con l’effetto meraviglia – come comporre volti in stile figurativo usando lo scotch da pacchi marrone sopra un light box … -) ma alcune altre, portavano delle personali davvero interessanti e articolate, che costruivano un sistema. Verso la fine del mio giro ho trovato il lavoro – foto e video di performance – di un/una transgender di Los Angeles che mi ha davvero emozionato, e sono stata a guardare lungamente quei video, uscendo dalla fiera in uno stato emozionato e rilassato. Ora non ricordo il nome dell’artista nè quello della galleria, ma ho il bigliettino nella borsetta.
E’ un po’ che non mi sentite, ma siete fortunati perché quando vi svegliate stamattina, in Italia, vi trovate il mio bel post con le impressioni calde calde dell’Armory Show di New York. Whau! Non ve lo aspettavate, vero?
Sto scrivendo di notte, questa sera, proprio per voi, così avete le notizie fresche fresche (e se qualcuno è interessato … posso fare la corrispondente da New York!) Non vi farò però un resoconto giornalistico, né una recensione critica, ma vi racconto le mie impressioni da artista e da persona curiosa.
Devo anche dirvi che ho voglia di andare in giro per mostre, è un modo bello anche per viversi la città e cogliere la sorpresa di New York, perché le scorse settimane ho fatto una vita piuttosto ‘normale’ e ritirata, lavorando molto ai miei progetti da attuare in Italia al mio rientro, e all’aggiornamento del mio sito in inglese, ai contatti con le gallerie americane, e allo sviluppo di un paio di idee nuove nuove … (v. post precedente).
Contrariamente a quanto accade per molti, che vengono a New York per un obiettivo specifico, io amo venire qui per pensare e per creare, perché la città mi stimola molto, trovo tutto ciò che cerco facendo minima fatica (come per esempio ristampare i miei biglietti da visita in carta bellissima, spendendo solo 100 dollari per 1000 esemplari fatti alla perfezione), e mi riempio gli occhi con stimoli di ogni tipo, anche se a volte ti senti un po’ sola in mezzo a tutte queste persone, conoscenze, possibilità.ma anche questa ‘solitudine elettrizzante’ è molto creativa, hai migliaia di stimoli e molto tempo per elaborarli …
Ho cominciato oggi dunque a girare per il turbinio di eventi che ci sono durante questa settimana dell’arte newyorkese. A dire il vero ho cominciato ieri, non a girare, ma a farmi un programma: nella selva di fiere, eventi, mostre, special e performance, ciascuno con i suoi orari e luoghi e incastri, se non mi facevo una scaletta e selezione di cose che mi interessava di vedere, finiva che andavo in giro come una scema, come spesse volte capita, ammutolita e annebbiata dalle troppe cose da vedere in contemporanea. Invece stavolta, sì, vado mirata, e ho fatto una selezione che è una chicca, e che mi è costata tutto ieri pomeriggio e sera per documentarmi sul web (sapete la miriadi di opening che ci sono? E la dislocazione geografica da Brooklyn al Pier 94 in 12 Avenue al PS1 a Long Island City in Queens, passando per Chelsea, Lower East Side, Midtown? E i conoscenti o amici o enti o gallerie che hanno mandato una e-mail in queste ultime settimane? … ).
Ma andiamo al sodo, immagino che volete sapere come era l’Armory Show …
Intanto, vi rivelo che non avevo nessun biglietto per l’Opening, perché qui non ne danno e nessun artista o addetto ai lavori con cui ho parlato, li aveva. (I giornalisti sono una categoria differente, loro entrano sempre ovunque … ) Il costo per entrare al preview dalle 2 del pomeriggio era di (guardare la tabella per crederci … naturalmente c’era incluso anche il party al MOMA … 😉
The $750 Patron ticket includes one ticket for early access to The Armory Show at noon, one ticket for the VIP Hour at MoMA, and one ticket to The Armory Party at MoMA.
The $250 ticket level includes one ticket for the VIP Hour at MoMA, one ticket to The Armory Party at MoMA, and one ticket for Vernissage Access to The Armory Show at 5:00 p.m.
The $125 ticket level includes one ticket for Vernissage Access to The Armory Show at 5:00 p.m. and one ticket to The Armory Party at MoMA (9:00 p.m. to 12:00 a.m.).
Così sono andata là sapendo che forse sarei entrata in qualche modo, ma prendendola con filosofia: se non entravo oggi sarei entrata l’indomani pagandomi il bigliettino per il pubblico (30 bei dollarucci … ). Però se entro oggi è meglio, così faccio come fa la ‘cream’: oggi l’opening all’Armory, domani un’altra fiera, e poi venerdì l’altra e l’altra … senza perdere un colpo!).
Contenta della mia mappa personalizzata, mi dirigo quindi con molta calma verso la 55th street and 12 avenue, facendomi una grande camminata (l’opening era dalle 5, perché dalle due era per quelli che pagavano un sacco di soldi …), vestita di tutto punto (se mi vedevate i giorni scorsi, stanca morta e scarruffata, per le strade di Manhattan non mi avreste riconosciuto … !), perché s’ha da fare, e perché così mi è più facile entrare.
E naturalmente sono entrata – gratis – al vernissage. Non vi dico come ho fatto, ma ho usato davvero molta classe ( e un poco di faccia tosta … ).
L’Armory Show è diviso in due diversi padiglioni, in due paralleli ma abbastanza distanti padiglioni – ex cantieri navali, il Pier 92 per l’Arte Moderna, e il Pier 94 per l’Arte Contemporanea. Io sono andata solo al 94. Ricordo edizioni di anni precedenti dell’Armory, compreso quello in cui avevo fatto la performance, dove le gallerie erano moltissime, invece questa edizione (e anche quella dell’anno scorso ricordo) con conta molte gallerie, ma naturalmente conta molte delle top list gallerie del mondo, con rappresentanze di tutti i continenti (No, a dire il vero, ho visto poche gallerie africane … ).
Come novità ci doveva essere anche una lounge con Armory performance, film e talk, però mi è sembrato più fumo che arrosto: una grande lista di performance, ma alcune erano nelle ore riservate a quelli che pagavano di più (dalle 13 alle 17 … ), e altre dovevano essere dopo, ma non ne ho vista nessuna, ho visto solo un palco con dei musicisti-o strumentisti- che sistemavano attrezzatura per la performance … (qui si dice ‘performance’ tutto, dalla musica al ballo, ed è ben distinta dalla ‘performance art’ delle arti visive, ma spesso fanno confusione anche loro, propinando concerti per come fossero art performance. Ho saputo anche di una performance che c’era stata nelle ore precedenti, che consisteva in persone che andavano in giro per la fiera con una calzamaglia bianca su tutto il corpo facendo una specie di danza … (beh, non mi sembra un lavoro proprio da mozzare il fiato … !).
Andiamo dunque a vedere gli stand. Devo premettervi però che, contrariamente al solito, ero serena e l’atmosfera era distesa e con una buona energia. Ho detto ‘contrariamente al solito’ perché spesso agli opening importanti o in genere a tutte le fiere, mi sento piuttosto nervosa, o percepisco un grande snobbismo che mi nausea, o mi viene il nervoso per una certa qual parte di vuotezza e non sense che vedo, o mi sento inadeguata, o adirata … tanti sono i contrastanti sentimenti che negli anni mi hanno accompagnato per le fiere d’arte. Questa volta invece, e me ne sono sorpresa io stessa, ero serena, e il clima generale era piuttosto cordiale. Certo, io ero più rilassata del solito, non me ne frega niente di prendere contatti, perché un po’ già li ho, e poi perché ho deciso che non prendo più contatti ma aspetto che mi vengano a cercare … (e, forse dovevo impararlo molto prima ;D … ).
Cosa ho visto di interessante? Invero un po’ pochino. Molti lavori ‘costosi’, enormi, accurati, molti nomi importanti, ma poca sperimentazione (ma questo era evidente, aspettiamo di vedere le fiere più interessanti di Volta, o Indipendent o Fountain … ).
Un po’ di freschezza e di proposte interessanti le ho colte nelle gallerie brasiliane (si vede che il brasile sta esplodendo ora … ) e in quelle orientali, soprattutto coreane (tra le altre cose una galleria di Seul ha esposto un Paik bellissimo che non avevo mai visto (ed è edizione unica).
1988 Nam June Paik, N005 Swiss Clock Courtesy of NAN JUNE PAIK ART CENTER
La Fiera quest’anno aveva come ospite la Scandinavia, e c’era una sezione di gallerie Nordiche invitate speciali, con opere o esageratamente ‘fredde’ (tipicamente ciò che ci si aspetta da quei paesi) o esageratamente ‘calde’ (totem pseudoafricani pittura gestuale su cartone sfracellato … ). Alcuni lavori mi sono piaciuti e li ricordo, ma già ora non mi vengono più in mente quelli che mi hanno veramente emozionato (forse solo il Paik? No, anche una stampa di Baldessari per la White Cube, e alcuni altri … ).
Una delle poche gallerie innovative e giovani e fresche presenti in fiera che ha portato opere che mi sono piaciute e non solo estetiche, ma anche di ricerca, è la galleria di Brooklyn Pierogi.
E’ stato bello, infine, e questo è un fatto squisitamente umano, ritrovare degli amici, come la cara Oxana, che era un sacco che non vedevo, venuta apposta dall’Italia, o l’amico Lee, col quale avevamo fatto mostre insieme alcuni anni fa – ai tempi dei pazzi galleristi Weisspollack …
Bon, ora vado a dormire, comincio a diventare fusa, se volete ulteriori aggiornamenti controllate spesso il blog nei prossimi giorni!!! ( ma non garantisco di riuscire a fare una cronaca quotidiana … ).
Sto passando queste settimane a New York in maniera un po’ strana … prendo contatti, lavoro al computer, scrivo e-mail, aggiorno il sito in inglese, presento progetti, coordino i progetti in corso in Italia … ed è molto faticoso, ho spesso mal di testa e desidererei divertirmi ma, invero (che ‘vetusto’ vocabolo, ma ora mi piaceva!), qui il modo di divertirsi è molto programmato, molto più di quanto io ne sia capace (e non ne sono capace nemmeno a Milano … ) divertirsi vuol dire scambiarsi molte e-mail proponendosi uno dei mille posti dove andare, e incrociare gli impegni e i desideri di ciascuno, e poi scrivere e-mail sulle proposte di dove vedersi, che poi si racchiudono in un concerto, o in un bar per un aperitivo, o in una mostra. E’ parecchio faticoso il tutto, anche perché si accumula con la già esagerata mole di e-mail e computer che bisogna usare per il proprio lavoro, e spesso, a mio parere, è un metodo di socializzazione che non funziona.
Infatti, questa volta più di altre, ho percepito e percepisco, oltre all’allegria che emana da questa città, anche una grande dose di solitudine delle persone, un grande girondolare di volti e di persone di ogni tipo rango razza credo pensiero, che come bolle gravitano nella città incontrandosi, ma mai comunicando veramente. E a conferma di tutto ciò c’è la droga degli smart phone: sempre, e ognuno, in ogni momento, è intento a digitare/comunicare/giocare/leggere/cercare la strada/chattare … sul suo smartphone, in ogni luogo, dalla metropolitana, a chi cammina per la strada – ho visto miriadi di persone attraversare in mezzo alle macchine digitando sull’ iphone le e-mail – in fila al supermarket, prendendo il caffè … insomma, davvero spesso sembra che tutti siano dentro una bolla, e percepisco tanta solitudine. Tanta giovialità, ma sotto la crosta tanta solitudine e tanta voglia di comunicare veramente (basta fare un esempio del mio coinquilino, che ogni volta che entro in casa cerca di attaccarmi un bottone cosmico facendomi una testa come un pallone – ora sta imparando a essere un po’ più discreto finalmente … ).
Comunque questa volta ho provato anche questa faccia di New York, quella della solitudine, e ci sono stati dei giorni, più di uno, dove ero particolarmente triste e depressa (e naturalmente mi mancava Mario, e mi domandavo che senso ci facevo io qua, mi mancava anche l’Italia e la famiglia, e mi domandavo che senso ha stare qua … poi quando ho saputo di Dalla, e mi sono riascoltata le canzoni, quanta nostalgia degli anni di Bologna, dove sì che ci si divertiva, da bohemienne spampanati, ma ci si divertiva ogni sera, ballando, ridendo, vedendo gente, e finendo magari la nottata parlando di arte con gli spaghetti aglio e olio delle 4 di mattina …
Poi però mi ritornava la risposta del perché sono a New York, stringevo un po’ i denti per tener duro, e continuavo. Sono andata avanti così per alcune settimane, per quello che non vi ho più scritto. Niente di nuovo sotto il sole. Vita quotidiana (certo a New York mai banale), lavoro al computer, stanchezza, tanta solitudine e malinconia abbastanza, incontri con amici e uscite, qualcosina.
Ora la fase acuta di nostalgia e leggera desolazione sento che sta passando e mi sento ritornare ad essere in forma (complice anche, forse, che nelle settimane precedenti mi portavo appresso un’otite nell’orecchio senza saperlo? Era quello anche che contribuiva a farmi essere così stanca e così down mood? Ora sto prendendo gli antibiotici e mi sento piena di forze …
Sicuramente nelle scorse settimane, pur avendo fatto vita ritirata e di lavoro, ho visto delle cose molto belle e qualcosa anche davvero insolita, come il concerto di jazz nel servizio religioso di una chiesa protestante in Lexington avenue. Chiesa meravigliosa, con architettura da sala da concerto nuova fiammante e artisticamente molto bella … peccato che non avevo con me la macchina fotografica, perché era da fotografare, ma ci ritornerò, ogni domenica alle 5 fanno la funzione religiosa col concerto jazz … questi mix di cose si trovano solo qui a New York!
(L’altro giorno, sono stata a Brooklyn al Grace Exhibition Space – dove avevo fatto la performance l’anno scorso – dove 10 artisti che operano con la performance presentavano il lavoro, ed è stato interessantissimo, inoltre 10 in un colpo solo! Ciò che mi piace è che qui c’è tutto il mondo e vedi una caterva di cose (non parliamo delle gallerie che ci sono … la scorsa settimana ho fatto una capillare ricerca per vedere bene i siti delle gallerie newyorkesi e credo che ne ho visti moltissime centinaia!!).
Sono stata bene a Montreal, bello essere in una situazione di famiglia e di vita domestica. Ho lavorato tanto al computer e ho goduto la compagnia di Mario, stando molto rilassata e per lo più in casa. Però dovevo tornare a New York perché ci sono molti progetti che mi aspettano e questa città vuole offrirmi le sue sorprese … Sono partita giovedì 16 febbraio, col solito pullman e il solito lungo e lento viaggio, pure mezza influenzata (insomma, il mio corpo col freddo freddo non è che va tanto d’accordo … non posso farci niente!).
Sono arrivata a Manhattan e ho preso un taxi per recarmi nella mia nuova sistemazione newyorkese nell’East Village. Sono stata stra-fortunata: un membro di Servas ha una piccola stanza in più per gli ospiti, che ha deciso di affittarmi, per un prezzo ragionevole, per questi mesi. Avere un prezzo ragionevole a Manhattan è praticamente impossibile ed io mi sento e sono molto molto fortunata. E, cosa meravigliosa, ho anche a disposizione una bicicletta! Così l’altro giorno, per festeggiare il mio arrivo e la primaverile giornata di sole, sono andata col mio coinquilino a fare un giro in bicicletta sulle rive di Manhattan – dove hanno appena costruito una splendida pista ciclabile – con lui che, da vero viaggiatore e vero servas, gongolava nel mostrarmi le cose più belle, inusuali o curiose, da vedere e da raccontare. Davvero una sensazione unica, stare sulle due ruote pedalando a fianco del ponte di Brooklyn! Scusate, non ho fatto foto, ma mi ero scordata di prendere la macchina fotografica, e poi spesso preferisco guardare che fermarmi a fotografare …
Poi dal giorno successivo ho ripreso comunque la mia routine di lavoro, con calma e relax, e mi sono occupata di preparare i progetti, elaborare The Finger and the Moon e concepire un nuovo sviluppo qui a New York, e ancora a contatti, ecc … ecc…, il tutto condito con pasti qua e là in posti uno più diverso dall’altro, la sorpresa delle strade di Manhattan dove ogni volta ti stupisci e ti meravigli, la vivacità degli stimoli, e la facilità di reperire tutto ciò di cui hai bisogno … certo, qualche volta mi sento sola, anzi non è corretto, perché sola sto bene, certe volte mi mancano tanto gli affetti, la mia famiglia in Italia e il mio amore in Canada, e mi chiedo che senso abbia essere così sparpagliati nel mondo … ma tant’è, la vita è ricca di percorsi e di risvolti, imprevedibili e affascinanti.
Curioso, per puro caso sono capitata in un paio di siti indiani dove appaiono i mei video … funny, nice! (AGGIORNAMENTO: ho controllato i link dopo alcuni anni e sti siti non esistevano più, per cui ho tolto i link!)
E, cosa ancora più curiosa, sono andata ieri sera a sentire una conferenza di una mia amica in uno studio-luogo-di-artisti-appartamento-pieno-di-tecnologia, con terrazzino con splendida vista su midtown, i cui componenti, e molti degli spettatori erano indiani americani. Ho parlato con un ragazzo la cui famiglia proviene dal Punhiab e che è di religione sikh, e gli ho chiesto di poter andare a vedere una funzione nel loro tempio. Questo percorso alla scoperta delle religioni e dei loro luoghi mi affascina molto … e New York mi sembra un abisso per tutto ciò (ossia ce ne sono a non finire! … ).
Devo riconoscere che sono felice, sento gratitudine nel cuore e sento di aver compreso alcune profonde verità, anche attraverso una purificazione col dolore, un dolore interno di una ferita dell’anima che esiste da sempre e che ho imparato a vedere con più leggerezza, con più relatività, e soprattutto ho un po’ imparato ad osservarla dal di fuori ed entrare e uscire dal livello che fa male.
E’ una gioia molto profonda, si sente la bellezza dell’amore di cui siamo circondati, e il sapore immenso della vita profonda, dell’energia vitale che scorre dentro e attraverso ognuno di noi, si percepisce la vibrazione meravigliosa di sentirsi puliti e perdonati, e questo perdono e questa dignità, nonostante i nostri limiti le nostre fragilità e la nostra piccolezza, nessuno ce le può togliere, nessuna persona e nessuna cosa, e questo è fantastico, è la più grande verità che abbiamo, e averla capita è il più grande dono che mi è capitato negli ultimi anni, e anzi dall’inizio di questo 2012 è come se avessi la percezione FISICA di aver capito questa verità, di sentirla in ogni mio poro.
Non è che non ricadrò più in crisi, nè che la parte ferita non mi causerà più sofferenze e pianti, ma so che è possibile e veloce risalire, e soprattutto ho imparato a guardarla da fuori questa parte, accettarla, coccolarla, e non identificarmi, facendo ricomparire velocemente la parte collegata col Tutto, assorbendo la parte dolorosa accogliendola e proteggendola, e pure sdrammatizzandola, non dandogli tanta importanza. E sai cosa è stato essenziale tra le altre cose? La purificazione del respiro, alcuni esercizi di pranahiama, l’attenzione al cibo e al suo benessere, lo stato di gratitudine del sentirmi circondata da qualcosa di immenso, sempre.
Il primo febbraio è il mio compleanno, e ho voluto condividere con voi queste riflessioni profonde, scritte in uno stato di gioia interiore, mentre ero sul bus che da New York mi ha portato a Montreal.
Incredibile, sono a New York da pochi giorni e mi sono piovute tutte le inagurazioni dei posti che amo di più. Ho preso questo fatto davvero come un benvenuto, oltre al gentile clima soleggiato e mite, insolito davvero di questi mesi a New York.
Scrivo per condividere alcune riflessioni su quello che ho visto e sui pensieri che mi hanno stimolato.
Location One: il talk era sulla performance art, con curatori e artisti provenienti dall’arte visiva e dal teatro. Interessante è stato il percepire e collegare le sottili differenze, di cui sono consapevole e di cui si è anche parlato, tra la performance fatta in contesto teatrale o in contesto artistico, le peculiarità di una e dell’altra, nonostante le innumerevoli mescolanze e derive fra tutti i linguaggi.
Interessante anche è stato sentire Joan Jonas parlare di come ha portato avanti il suo lavoro. Ciò che mi piace qui è che sono messi sullo stesso piano e trattati con la stessa dignità e interesse sia giovani che artisti affermati, veterani della critica o giovani emergenti. E’questo clima di accettazione e diffusa possibilità che adoro a New York. Riesci a sentirti sempre non troppo giovane o non troppo vecchio, come spesso invece può succedere in Italia (per certe cose sei troppo giovane, solo le persone di lunga carriera e fama posso accedere, per altre è come se fossi troppo vecchio, chissà se ci saranno nuove possibilità per te, ecc … ).
Art in General: bella installazione di video, in stanza scura, sul soggetto del bere, focalizzato attraverso la ripresa di scene di films di Cassevetes. Io non ho ancora visto suoi films, ma li vedrò a breve, e Mario più molti amici me ne avevano parlato molto bene. Mi è piaciuta la mostra, che focalizza l’aspetto sociale, umano, comportamentale, psicologico, dell’atto di bere, sia soli che in compagnia, focalizzando scene e bloccandole.
(Lo stesso giorno c’era anche l’opening all’Artists Space, ma la mostra non mi è piaciuta per niente nè ho voglia di parlarne – a volte le cose che non piacciono sono stimolanti, questa invece per me non lo è stata affatto, anche se ho cercato di capirne di più guardando catalogo e sito).
Sono andata al New Museum a vedere una performance di un artista di Beirut. La performance era una session di video e dj live. Abbastanza scontata come combinazione e come concetto, il video e i suoni comunque erano ben fatti. Il video prendeva delle scene splatter o pop dalla trash tv libanese o araba, e li montava focalizzando scene di aggressività e violenza. Come dicevo il video era ben fatto e alcune parti delle immagini arabe avevano interesse sociale e incuriosivano in quanto portatrici di un’altra cultura, ma il tutto era leggermente ovvio o comunque deja vù.
Sempre bellissimo invece essere a un opening al PS1. Tantissime persone e tantissime mostre, davvero interessanti. Alcune cose mi hanno fatto molto riflettere, e tante le ho gustate davvero. Un fatto degno di nota è che la maggioranza delle opere esposte era in relazione con avvenimenti sociopolitici della situazione mondiale. Ciò mi interessa e mi piace molto: l’arte come mezzo per indagare sulla società e per filtrare gli avvenimenti. Già all’inizio, nel cortile, c’era un grande tendone dove in collegamento video via skype c’era un artista egiziana, Lara Baraldi, la quale ha contribuito, insieme con altri artisti, a fondare il Tahir Cinema durante la Rivoluzione del 2010 al Cairo:
Although the Egyptian revolution has been called the ‘Facebook Revolution’, the majority of Egyptians did not and still don’t have access to the Internet, and therefore have no access to news coverage other than through the Egyptian media. During the July 2011 sit-in in Tahrir Square in Cairo, a group of artists and filmmakers lit up a corner of the square with an open-source ‘revolutionary’ screen: Tahrir Cinema. Every night, a filmmaker, journalist, or activist presented a selection of visual material related to the Egyptian revolution, ranging from raw footage to documentary, from HD to mobile camera quality, from animation to YouTube virals (know more)
Un altro esempio connesso con i recenti avvenimenti mondiali è il lavoro di Chim↑Pom nella Hall del piano di ingresso. Questo collettivo di artisti Giapponese ha esposto un video a due canali che documenta un’azione da loro intrapresa per ‘sollevare il morale’ delle persone nelle zone terremotate:
Following the March 11, 2011 earthquake, the artist collective Chim↑Pom traveled to Soma City, Fukushima where they made friends with local youths—many of whom had lost their homes and loved ones, and were living among the destruction and radiation that accompanied the earthquake and subsequent destabilization of the nearby nuclear reactor. In response to the disaster they conducted a sequence of one hundred KI-AI. KI-AI is martial arts term describing a way to collect and direct one’s inner energy through exhalation or vocalization before attacking. Chim↑Pom plays on the idea by focusing the group’s energy through collective action which was video recorded. MoMA PS1 presents the resulting two-channel work KI-AI 100 (100 Cheers). (see more)
Mi sono piaciuti molto anche i lavori di Frances Stark (video tratto dalla sua esperienza di chat online) e di Surasi Kusolwong, che ha lavorato con l’interattività riempiendo tutto un grande spazio di fili di lana, dove le persone potevano immergersi e addentrarsi, per ‘scovare’ – e tenere – gli oggetti d’oro che l’artista aveva nascosto nel mezzo.Curiosa e ironica la mostra di Darren Bader, che ha esposto un’iguana, in una gabbia di vetro molto grande con tanto di verde acqua e albero dentro, al di fuori della quale vedevi in terra un croissant. L’opera si intitolava infatti: Iguana e croissant … Ha anche esposto dei gatti, in un’altra stanza, chiedendo ai visitatori chi volesse adottarli per non farli sopprimere …
Anche la performance suscita ancora un grande interesse. Clifford Owens riflette sui confini dei medium, ossia tra la performance e la sua resa con fotografia e video, portando in mostra un'”Antologia” di performances fatte e documentate appositamente per questo progetto. (see more)
E poi che dire dell’incredibile poesia dell’installazione fissa, che avevo già visto, “Meeting” di James Turrel?
Si entra in uno spazio il cui soffitto è tagliato da una cornice, al di là della quale vedi il cielo. E subito ti accorgi di essere all’aperto, e che dentro la cornice, guardando a testa in su, si muove il cielo, con le sue nuvole che vanno, come se fosse un grande video proiettato sul soffitto …
Mentre tutto o quasi tutto il mondo dell’arte italiano si sta dirigendo a Bologna ad Arte Fiera, io sono partita per New York (e Canada). Ho preso il mio bel volo e sono planata sul JFK alle due del pomeriggio di ieri, 25 gennaio, allegra come il sole che mi ha seguito dalla partenza sulle alpi all’arrivo in città.
Sono stata volentieri in Italia per questi ultimi mesi, anche perché sto lavorando ad alcuni progetti molto interessanti, da attuare in Italia dalla primavera inoltrata in poi, inoltre ho cominciato a collaborare con altre persone e con assistenti, per cui sono stati mesi utili e soddisfacenti, ma respirare l’atmosfera italiana senza deprimersi troppo non è tanto facile, e il bisogno di ritornare a New York è un fatto imprescindibile per me, per continuare a fare l’artista e soprattutto per credere nei propri sogni.
Anche il tassista a Milano, mentre mi portava alla fermata del bus per Malpensa, mi disse con voce depressa: sì, fugga fugga dall’Italia, che qui va tutto a rotoli … Questa frase mi ha colpito, perché è indicativa della percezione che tutti gli italiani hanno in questo momento della realtà in cui stiamo vivendo. *
Io non sono partita per New York ora per fuggire da questa morsa italiana, ma l’ho fatto già da parecchi anni, quando nel 2005 sono venuta a New York poiché in Italia trovavo difficile proseguire nel mio lavoro con soddisfazione. Ora tutti si lamentano che c’è la crisi, la crisi, ma da quando io ho cominciato a fare l’artista (e, udite udite, nel 2012 sono vent’anni dalla mia prima performance! – vi scriverò meglio in seguito di questo) ho sempre trovato la situazione italiana molto stemprante, dove chi vuole fare l’artista deve lottare col sangue e coi denti per poter continuare e per ricevere dignità e rispetto del proprio lavoro.
Quando avevo messo il naso a New York nel 2005 per la prima volta, avevo già provato e rigirato in lungo e in largo la situazione italiana, e se anche avevo fatto cose soddifacenti e a volte prestigiose, le difficoltà che ti rimbalzano contro, e il muro di gomma che impedisce alle cose di attuarsi, erano così forti e implacabili che avevo deciso di non rimanere lì a guardare i miei entusiasmi sparire e le mie energie affievolirsi per combattere contro i mulini a vento. E quel viaggio, deciso in poche settimane (allora avevo deciso di andare a Berlino ed ero anche già d’accordo con una stanza da affittare, poi improvvisamente presi una palla al balzo per andare a New York), mi ha aperto un mondo e una serie di collaborazioni, progetti, continui viaggi, avventure, fatiche ed entusiasmi (potete sempre vedere il diario New York per gli inizi, e alcuni post dell’anno scorso di questo blog) che continua ancor ora, anche se so bene che a volte New York è una città dura e competitiva, ma sempre irresistibilmente propositiva e vitale.
Quindi, non sono andata via ora perché fuggo dall’Italia (tra l’altro io vado e poi torno, e poi vado e poi torno, in un esercizio di altalena tra i luoghi e tra le vite che è un po’ complicato ma di un fascino assoluto per uno che ha un carattere come il mio), ma è sacrosanto dire che non vedevo l’ora di andarmene e di respirare nuova aria. E, devo ammettere, non mi manca affatto la Bologna di Arte Fiera, mentre invece c’erano anni che diventavo fibrillante di impazienza di andare a Bologna già settimane prima dell’evento (per non parlare di tutti gli anni in cui ho abitato a Bologna e amato quella città, e durante Arte Fiera avevo sempre qualche mostra o qualche performance da qualche parte, e un calendario fittissimo di cose da vedere).
Beh, ora però vi voglio descrivere la giornata di ieri, che è stata straordinaria, perché, complice il fuso orario e la differenza di 6 ore dall’Italia, ho vissuto una giornata lunghissima vivendo situazioni in due posti da una parte all’altra dell’Oceano, che mi ha fatto sentire quasi un po’ ubiqua – oltre che in uno stato di ebbrezza esilarante, e in leggera confusione.
Dunque: sveglia alle 6, ora italiana, per sistemare le ultime cose, vestirmi e uscire in tempo per arrivare in taxi alla fermata del bus per Malpensa. Tutto scorre fluido e in sincronia perfetta (al contrario del viaggio per Miami dove già a cominciare dal taxi tutte le combinazioni andarono storte), arrivo in aeroporto e magicamente appare un trolley per issare le mie due valigie e faccio il check in in modo rilassatissimo. Ho detto ‘appare un trolley’ perché a Malpensa non sai mai dove sono i carrelli, ma questa volta c’era uno straniero ad aspettare il bus offrendo i carrelli in cambio di una mancia, ed io ho molto apprezzato questo modo di rendersi utili e di guadagnare i soldi. Inoltre avevo già programmato che quando sarei arrivata a New York volevo assolutamente andare a sentire un talk sulla performance alla Location One di Soho, e volevo fare un viaggio non totalmente distruttivo per non crollare come una pera al mio arrivo.
Quindi salgo sull’aereo, con un magnifico sole, e mi vedo tutte le Alpi dall’alto, e ogni volta che volo mi emoziono un sacco per la meraviglia di vedere il mondo dall’alto e carpirne la sua morfologia … Riesco pure a dormire un po’, mi guardo un paio di bei film e dopo 9 ore di volo – bello avere il volo diretto! – atterriamo a New York. Lì occorre una bella dose di pazienza e di tempo (almeno 1 ora e mezza) per la fila alla dogana appena sbarcati, e in un paio d’ore riesco ad uscire dall’areoporto e dirigermi alla casa della mia ospite in Carmine street. Erano le 16 ora americana, le 22 ora italiana, ero un po’ stanca di tutto il viaggio, però sapevo che c’era questa conferenza importante che volevo vedere, e così mi sono fatta dei bei respiri e mi sono immersa nella mela. Arrivo a casa nel west village, chiacchiero con la mia ospite in italiano, perché lei adora l’Italia e desidera praticare l’italiano, e poi esco a piedi verso Soho, Location One, assaporando gli angoli le strade e i negozi di un quartiere che conosco benissimo, perché tra una coincidenza e l’altra, sono quasi sempre stata ad abitare da queste parti quando vengo a New York.
La conferenza era super interessante, proprio sulla performance art e il concetto di contemporaneità, c’erano alcuni artisti e curatori a parlare, tra cui Joan Jonas. E, colmo del benvenuto, la mia amica Marie mi ha raggiunto lì e ho assistito alla conferenza in compagnia, sentendomi accolta e a casa. Dulcis in fundo, invece di prendere un taxi per tornare a casa, come avevo programmato immaginando di essere cottissima, io e Marie ci incamminiamo verso Spring Street per le vie di Soho e poi a questo punto proseguo a piedi verso Carmine street, comprandomi alcune cosette da mangiare in vari negozietti aperti. Alle 10 di sera, ora americana, 4 del mattino ora italiana, mi metto a letto stanca, serena, grata, per dormire naturalmente come un sasso un meritato riposo.
Welcome back to New York!
* AGGIORNAMENTO:
Quelli erano i decenni di Berlusconi e delle veline, nonchè pure della crisi, mentre in seguito la situazione in Italia, a mio avviso, è piuttosto migliorata ed ora stare qui è una delle scelte migliori da fare (almeno per me).
C’è stato un ‘black out’ di quasi un mese, vero? La ragione è molto semplice e molto ‘radicale’: sono stata incollata, con la testa, il corpo e lo spirito, al computer per finire il video di New York della serie “The Slowly Project. Take your Time- New York”.
E’ stato un periodo in cui – e mi conosco e so che riesco a lavorare solo così – ho dovuto interrompere ogni cosa, anche ogni pensiero, e ogni deviazione, per concentrarmi solo interamente sul montaggio e la creazione del video. E così ho fatto. Avevo cominciato a lavorarci 6 anni fa!! La prima performance a New York è del 2005, con le relative riprese, e ho ripetuto la performance per tre volte, nel 2005, nel 2006 e nel 2011 alla ricerca delle riprese migliori e la sintesi di tutto è confluita nel video finale.
Video, dormire, mangiare, funzioni vitali, e qualche chiacchiera. E stop. Video, dormire, mangiare, funzioni vitali, qualche chiacchiera. Stop. A ciclo continuo. Sempre lì con la testa e il cuore. Totalmente. Per un mese. Solo ed esclusivamente quello. E ho finito il video.
E ne sono molto, ma molto orgogliosa. Ecco a voi un excerpt del video.
Ho dovuto fare questa kermesse finale perché sono stata invitata a partecipare a una mostra sul ‘tempo’ intitolata “Unhooked from Time” alla Gallery Project di Ann Arbour in Michigan. (guarda il concept della mostra).
I curatori, durante il periodo del festival di Brooklyn, hanno visto il mio lavoro e mi hanno invitato subito a presentare in galleria i tre video dello ‘Slowly Project’ fino ad ora realizzati (Modena – Basel – New York).
Il video di Modena l’ho già esposto in varie gallerie in Italia, ma il video di Basel, terminato l’anno scorso, è quasi inedito (è stato presentato in anteprima allo STRAFF Hotel di Milano per un evento del Salone del Mobile, invitata da un gruppo di Designers).
Ma come ero felice quando ho ricevuto questo invito! Questo mi piace dell’America, che tutto può accadere velocemente e pure mi piace un casino, lo dico francamente, che la gente mi chiama, mi invita, mi cerca – e in Italia accade molto di meno … – dovete ammettere che è una endovenosa di benessere e autostima che aiuta le endorfine a spuntar fuori!
Quando mi hanno invitato ho detto subito ‘sì’, anche se la mostra era programmata per gli inizi di aprile, e il video di New York era in alto mare, ma mi piace moltissimo il concept della mostra, e pure la galleria, e così ho detto sì, vi mando i video e finisco quello di New York (a cui si erano aggiunte anche le riprese fatte quest’anno della performance per la Giornata Mondiale della Lentezza).
I video dovevano arrivare in galleria per l’inizio di aprile, per cui mi sono tappata in studio, e potevo essere in qualsiasi parte del mondo, la vita era ridotta all’osso … però sono stata felice.
La fatica fisica di dover stare ‘creativamente’ al computer per montare i video è tantissima (almeno per me), lo sforzo di prendere costantemente decisioni che prima o poi devono essere definitive, è davvero totale, ho fatto una lotta feroce con la materia, come fosse un blocco di marmo da modellare e assottigliare e scolpire per trovarci ‘michelangiolescamente’ la forma nascosta … e solo imparando a memoria la visione di tutte le riprese e sequenze possibili (ore e ore di girato nell’arco di 6 anni … è uno slowly project, no?) credo di essere riuscita a creare una sintesi poetica dove sono rinchiuse molte chiavi di lettura.
Poi ho spedito i video, e nel frattempo sono dovuta ritornare in Italia, per motivi incombenti e logistici, ma con lo spirito allegro, di essere stata voluta e cercata artisticamente in questi mesi, ed aver dato ogni possibile microangolo di me attraverso l’arte, avendone avuto la possibilità, mi ha dato tantissimo.
A volte in Italia mi era capitato di sentirmi emarginata, qualche volta dimenticata, e non è bello per la propria autostima, anche se le ragioni non sono personali (di solito il mio lavoro piace) ma di contesto (è spiacente dirlo ma a mio avviso in Italia è tutto così statico e anche così ‘amico-dell’amico’ funzionante …)
Ed ora eccomi qui. Sono rientrata in Italia per alcuni mesi. Dovevo rientrare e godo nel vedere e sentire, a poco a poco, tutte le persone a cui voglio bene. Però un po’ con lo spirito è come se fossi ancora in America, volevo essere all’opening in Michigan, e il fervore febbrile di NY già mi manca (anche se non va preso a dosi massiccie, e qualche break è più che salutare).
Dell’Italia mi godo il cibo, la primavera e gli amici (anche se però ho molti progetti a cui lavorare e sarò sempre all’opera … )
Il video integrale è visibile in pay per view su Visualcontainer TV, la televisione della videoarte internazionale, a questo link
La domenica subito dopo la presentazione dei video avvenuta di sabato, c’è stata la mia performance ‘live’ per il SITE fest al Grace Exhibition Space. Ve l’avevo già detto che queste ultime due settimane erano inverosimilmente piene, e non ho avuto un attimo di respiro, ma sono stata davvero onorata di essere stata invitata a fare una performance in questa galleria emergente dedicata esclusivamente alla performance art.
In questo week-end c’erano 75 performance in 4 spazi in contemporanea, e nonostante ciò lo spazio era pieno, e molte persone erano venute appositamente per l’orario della mia performance, e amici che seguono il mio lavoro, e ringrazio tutti. Davvero felice! davvero davvero!
Ma sono stata emozionata e colpita e onorata che fosse venuto a vedermi Tehching Hsieh, e sua moglie!
Teching è un artista performer famoso per le sue ‘One Year Performance‘ che ha fatto negli anni 70, e avevo conosciuto il suo lavoro un paio di anni fa quando qui a New York vidi una mostra bellissima al Moma. Emozionata dal suo lavoro gli scrissi un’email e da allora siamo rimasti in contatto, e qualche mese fa, al mio arrivo a New York, ci eravamo finalmente conosciuti di persona. E’ un artista che adoro e che considero un maestro e uno dei più importanti artisti che abbiano lavorato con la performance. Tra l’altro lui mi diceva che ha ormai 60 anni e che il riconoscimento vero e proprio gli è arrivato da non molti anni … Guardatevi un po’ del suo lavoro, che proprio merita!
La dolcezza e la soddisfazione di vedermi Tehching che è venuto apposta per vedere la mia performance, nonostante pure il diluvio universale di quel giorno, mi ha commosso e dato un senso di gioia profonda dentro. E ciò mi aiuta ad andare avanti e dare un senso a ciò che faccio.
La performance che ho presentato questa volta non era a sorpresa tra la folla, ma fatta per essere guardata da un pubblico.
E’ ormai più di 10 anni che ho scelto soprattutto di agire con azioni a sorpresa e in contesti di vita reale, lavorando site specific e in maniera interattiva, appunto perché volevo andare ‘dentro’ la vita e non fare le performance per un pubblico negli spazi prestabiliti, però per questa rassegna avevo deciso che avrei di nuovo fatto una performance che andava vista poiché ci sarebbe stato un pubblico specifico a ‘guardare’.
Così ho ripreso in mano la tematica delle ‘scatole’, su cui lavoravo anni fa, perché mi era diventata attualissima nella mia esperienza newyorkese, e ho costruito un lavoro di interazione e ‘duetto’ tra la performance reale e la performance ‘virtuale’ del video sovrapposto, una dialettica tra la speranza e la rassegnazione, fra la realizzazione e il fallimento … un pendolo che oscilla da entrambe le parti forse per tutta la vita …Si intitola UNREAL EXIT, Uscita irreale, come irreale è la virtualità dello schermo rispetto alla vita.
LIUBA, Unreal Exit, performance and videoprojection, sunday March 6, 2011, photos: Julie Finton
Grace Exhibition Space – 840 Broadway, 2nd Floor, Brooklyn
The piece is a ‘duet’ between live performance & video projection, where the same performance goes in a different way. Real & Unreal mix together through the theme of being imprisoned into boxes & the ‘virtual’ possibility to get out of them.
E questo è il video.
Desidero però che fate attenzione, e per me è molto importante, a percepire la differenza fra un video che è la pura ‘documentazione’ di una performance fatta per essere vista, come in questo caso, dove la videocamera registra in tempo reale cosa si sta svolgendo, e i video invece che risultano dalle mie azioni a sorpresa tra la realtà e la folla. Quei video mi richiedono una fatica immane, di solito faccio una o più giornate di performance riprese da una o più cameraman, e impiego anche anni a dare la forma a quel materiale e a creare il video, che è opera, con tutta la casualità delle interazioni e di ciò che succede … Ci ritornerò su questa cosa, ma intanto godetevi il video ‘documentazione’ della performance ( di cui non ho fatto altro che scaricarlo, toglierli qualcosa all’inizio, convertirlo e caricarlo (per le mie opere video impiego dai 3 mesi ai 5 anni per finirle! (v. lo ‘slowly project’ … )
Devo dirvi cari amici che finalmente in questi giorni sono felice, davvero felice e leggera … In tutti questi mesi ho lavorato tantissimo, senza mai fermarmi, e New York quando vuole è proprio dura (e chi ci ha abitato lo sa), dovendomi occupare a 360° di tutto, dalla segreteria organizzativa, all’ufficio stampa, agli aggiornamenti sul web, al lavoro artistico vero e proprio, ai contatti e alla documentazione … quasi ogni artista deve fare contemporaneamente il lavoro di 5 persone e professionisti diversi, ed è da stramazzare, e alla fine si è come dei registi di sè stessi, che danno gli ordini ad altrettanti sè stessi che devono eseguire miriadi di cose che vanno fatte …
E devo pure dire che sono fortunata, che ho chi mi supporta e chi mi aiuta, come Gianluca che mi ha dato una mano tecnicamente col sito e col blog, Claudio, che mi ha dato una mano via e-mail per le traduzioni (a sì dimenticavo, fra le varie mansioni che servono all’artista c’è anche quella dello scrittore, perché bisogna scrivere la presentazione dei progetti, le sinossi, le traduzioni, ecc. ecc.).
Ci sono gli amici che mi hanno aiutato nella logistica, come Ceren che a Milano ha cercato a casa mia il cappotto che mi serviva per la performance e ci siamo coordinati con Bruno perché lo portasse a New York, c’è stata Julie, la sorella di Nora dalla quale ora abito, che mi ha procurato la pittura giusta per dipingere le scatole che mi servivano per la performance (perché dal ferramenta dove ero andata mi avevano chiesto 50 dollari e avevo capito che non era il tipo che volevo dato che in Italia di solito ne costa 10 … !) … però confesso che mi merito un’assistente, qualcuno che mi aiuti nello sbrigare un sacco di cose logistiche connesse col mio lavoro, e sogno di avere uno staff dove c’è chi si occupa della segreteria, di rispondere a tutte le e-mail, di mandare le foto e i cv e i progetti ai curatori o ai galleristi che te le chiedono, di fissare gli appuntamenti … poi c’è chi si occuperebbe della logistica: trovare i materiali, trovare i vestiti, trovare i cameraman o la tecnologia necessaria, e poi serve chi aggiorna il sito e i network vari, e poi e poi … insomma, se la guardiamo con la lente di ingrandimento la vita dell’artista ha il suo fascino ma oggi come oggi è una fatica enorme perchè dobbiamo essere uno nessuno e centomila! E poichè non siamo una ditta con un fatturato e non abbiamo nessuna entrata certa (e spesso nessuna certezza, aggiungerei …) pagare dei collaboratori non è un giochetto da ridere, e così gli artisti che possono permettersi degli assistenti sono davvero pochi … però, come dicevamo oggi con la mia amica Amanda, con cui finalmente dopo tre mesi siamo riusciti a vederci e a prenderci un drink raccontandoci le nostre vicende artistiche, tutto ciò dà pure soddisfazione!
Allora, vi dicevo, finalmente l’altra mattina mi sono alzata leggera, e felice, felice perché tutto il week-end artistico era andato benissimo e ho ricevuto un sacco di soddisfazioni, davvero profondamente felice e grata alle persone che hanno condiviso con me ciò che ho potuto dare con la mia arte.
Finalmente, dopo aver solo lavorato, mi sono goduta la bellezza di questa vita e il sapore dell’apprezzamento, esaltato pure dal fatto di aver ricevuto un invito da una galleria per una mostra col mio progetto sulla lentezza! …
Tra l’altro devo ammettere che molte volte, e so che capita a tutti, dopo aver intensamente lavorato per una mostra o una performance, il giorno dopo ci si sente quasi delusi, svuotati dal tanto impegno e inquietamente dubbiosi se tutto ciò abbia un senso, oppure pignolamente mai contenti e soddisfatti … a me è capitato molte volte, però evviva evviva questa volta il post-lavoro è meravigliosamente bello e inebriante. Mi sento felice. E sono grata a tutti.
Sabato ho presentato i miei video al 3ward di Brooklyn nell’ambito del SITE FEXT, e davvero ho percepito nelle persone che li vedevano con interesse e piacere, e poterne parlare insieme a loro e mostrarli mi ha dato gioia e soddisfazione.
Questa formula delle presentazioni live delle mie opere video mi piace sempre di più e vorrei che diventasse una attività ricorrente.
L’ho già fatto alcune volte, come quella a Celico, in Calabria, presso la residenza artistica del mio amico Alfredo Granata, ed era stato così bello ed emozionante presentare i miei video a quel pubblico curioso e generoso!.
Bello è stato vedere la mia amica Nora e il mio amico Eric che nonostante siano in un periodo di super impegno e lavoro, sono venuti apposta per me e ne sono fiera e grata – bisogna dire poi che qui a New York le distanze sono lunghissime, e questo festival, il SITE fest appunto, è stato organizzato a Bushwich, che è il quartiere artistico emergente di New York ma chè è in una zona ancora poco esplorata della città e non facilmente raggiungibile da alcune zone di Manhattan. Per cui il loro sforzo di venire mi ha davvero commosso ed emozionato.
Ed ecco alcune foto fatte dal mio amico fotografo Regi Metcalf.
“Ma com’è andata la performance per la giornata Mondiale della Lentezza?” Mi chiederete. E’ andata molto bene, anche se è stato molto faticoso per me farla per due giorni, sia a livello fisico che psichico che logistico.
Lunedì siamo stati a Union Square, era una giornata uggiosa e piovosa, ma ci sono stati spiragli che mi hanno permesso di fare la performance. E come al solito le reazioni sono state di stupore, di gioia, di condivisione, di fastidio.. i clacson impazzivano quando attraversavo la strada!!! LOL!! 😀
Qui potete vedere qualche immagine documentativa, frettolosamente montata dalle riprese ( e attenzione, perché per me è così differente quando monto e propongo un video come ‘lavoro’ o quando c’è una mera documentazione della performance’, come in questo caso … )
C’era tutto il team di Vivere con Lentezza, con Bruno Contigiani che faceva interviste ai passanti frettolosi, e con lui i ragazzi che cantavano arie di opera tra un’intervista e l’altra …
Mercoledì la performance ha continuato per Manhattan al Metropolitan Museum e in Times Square sino alle tre (e faceva invece un gran freddo, e non ero molto coperta, perché avevo deciso di vestirmi come l’altra performance fatta a New York, ossia con un leggero spolverino di camoscio nero aperto (così fluttuava lentamente) su un completo bianco di golf e pantaloni.
Quando si fanno le performance s diventa quasi come dei ‘fachiri’… la concentrazione è e deve essere così grande che il corpo riesce a sopportare di tutto! (Lo dice una freddolosa totale).
Il pomeriggio sono andata all’inaugurazione dell’Armory Show, sempre ‘lentamente’ …
Volete sapere la verità? L’amibiente mi è sembrato, scusate se lo dico, artificiale e fastidiosamente mondano (e noiosissime le opere, tranne poche).
Ed io che stavo lì a camminare a rallentatore mi chiedevo che senso avesse tutto ciò, e anch’io, e l’arte in generale …
Anzi forse, essere lì, delicatamente camminando lentamente facendo la moviola, e discretamente passando tra la gente festaiola e chiacchiereccia, mi ha dato una sensazione di vuoto e di fanfara, di un sistema dell’arte che usa gli artisti e si diverte alle loro spalle, e sui loro sacrifici e sulla loro pelle, ogni tanto osannandone alcuni, per poi dimenticarli e usarne poi altri …
Inutile dire che il giorno dopo ero massacrata, il lavoro di muscoli coinvolto in questa performance è abissale, e il continuo controllo dei movimenti è davvero faticoso, e, come sempre il giorno dopo le mie performances, passo una giornata di low pression a letto vegetando e recuperando le energie, senza fare minimamente nulla (ma la mia giornata di riposo manco è stata completa, dato che ho dovuto nel pomeriggio mettermi a lavorare per la performance e la presentazione dei video per il SITE fest, che sarebbero state pochi giorni dopo.
Ma evviva l’abbondanza di lavoro che ho a New York!
Dopo aver gironzolato per Manhattan per due giorni camminando a rallentatore e bloccando il traffico dei mille taxi in arrivo, dopo aver fatto la performance all’opening dell’Armory Show (sempre lentamente: l’Arte è lunga, il tempo breve, scriveva Baudelaire) in mezzo a cocktail e miriadi di persone, e non aver avuto nemmeno il tempo di riprendermi, ecco che devo fare una nuova performance e due presentazioni dei video in tre posti differenti nel prossimo week-end, nell’ambito del SITE Fest a Brooklyn, festival internazionale di performance ed evento ufficiale dell’Armory Week.
Sono contenta ma così ‘multitasking’ come dicono qua (ossia pensare e fare mille cose in contemporanea) che quasi non riesco nemmeno a divertirmi, tanta è la fatica, ma tutto è molto stimolante.
Sono felice ma spesso mi arrabbio, perché, sembra strano a dirsi, ma qui capita spesso che tutto venga fatto all’ultimo momento. Mi era capitato quando lavoravo con la galleria alcuni anni fa (ricordo le corse a finire la videoinstallazione la notte prima della mostra, semplicemente perché il gallerista aveva avvisato il falegname all’ultimo momento, e la prima bozza era pronta solo il giorno prima, e poiché andavano fatte un sacco di modifiche tutto è stato fatto al volo … e varie altre nottate) e anche adesso, per questo festival di performance, hanno selezionato mi sembra 75 performance in 3 differenti locations, ma poi tutto è allo sbaraglio nell’organizzazione, tanto che fino alla settimana scorsa non si poteva nemmeno fare un sopralluogo nello spazio né mettersi d’accordo con i due fantomatici ‘tecnici’ di cui ci avevano dato l’indirizzo e-mail ma con cui non si poteva parlare … ora che mancano due giorni finalmente si fanno sentire, ma io odio dover pensare alle cose tecniche all’ultimo momento!
In confronto sto avendo un’esperienza ‘paradisiaca’ con la Germania: sono stata invitata a partecipare con un lavoro a un’importante rassegna internazionale di performance a maggio 2011, e sono stata avvisata un anno prima (meraviglia!) e da molti mesi hanno già organizzato il programma, e per ogni artista c’è un’ottimo budget per il lavoro, ospitalità, contratto … Qui a New York è tutto di fretta e all’ultimo momento, poi però tutto si aggiusta e diventa esilarante …
E ciò che mi piace di New York è che è una sorpresa continua! …
Ecco il programma:
Sabato 5 marzo h. 18.30 e Domenica 6 marzo h.13.30 LIUBA – Presentazione live dei video Virus, Virus New York
3rd Ward
195 Morgan Ave – Brooklyn
Virus/Virus New York
Virus is investigating over the ‘buying bulimy’, that affects the daily-life models and the art world as well. An ironical reflection over value of works and value of selling.
Grace Exhibition Space
840 Broadway, 2nd Floor, Brooklyn
Unreal Exit
The piece is a ‘duet’ between live performance & video projection, where the same performance goes in a different way.
Real & Unreal mix together through the theme of being imprisoned into boxes & the ‘virtual’ possibility to get out of them.
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Venerdì 4 marzo, 2011: h. 19 Liuba – proiezione del video: Rimini Rimini
SITE Fest Launch Party! by Arts in Bushwick Brooklyn Fire Proof • 119 Ingraham St., Brooklyn
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Arts in Bushwick is pleased to announce the third annual SITE Fest.
Performance artists, dancers, and musicians will offer a condensed, two-day sampling of work from the
burgeoning arts scene of Bushwick, lauded by the New York Times as “arguably the coolest place on the
planet.” SITE Fest focuses around four hubs that have swiftly become major forces in the Brooklyn art scene:
Chez Bushwick, Grace Exhibition Space, The Bushwick Starr and 3rd Ward.
Over 75 performances will take place at our hub venues
Grace Exhibition Space, opened in 2006, is the singular gallery in New York City devoted to Performance-Art. They are committed to exhibiting the premier artists in the world, whether emerging, mid career or established. Being a Brooklyn loft, their events are presented in an environment where, by presenting the performances on an equal level as the viewers, the boundary between artist and viewer is dissolved. They believe strongly that this is how performance-art is meant to be viewed, presented and experienced. Their mission is the glorification of performance art.
Vi scrivo perchè voglio essere sincera, e se vedete quante cose mi stanno succedendo e quanto devo fare, e quante belle notizie, con le performance tutte insieme in arrivo (non vi ho ancora mandato il comunicato di quelle al Brooklyn festival perché non ho avuto tempo ma lo farò presto), e tutti gli spostamenti che ho fatto, pensate che tutto avvenga con facilità. Invece, anche se sto bene e sono felice, ci sono momenti, come questo, che sono spossata dalla stanchezza e dalla malinconia.
Mercoledì scorso ho finalmente cambiato a casa e ho affittato una stanza dalla sorella della mia amica Nora, che casualmente stava cercando un’inquilino. Me ne sono andata via dalla casa dei bed bugs, anche perché ogni tanto ne ricompariva uno (!) e l’atmosfera mi era diventata molto deprimente. Certo, la posizione era molto comoda, in W4 street, però la zona anche molto turistica, così sono stata contenta quando ho avuto la possibilità di andarmene, di venire a Brooklyn, dove c’è una vita quotidiana più normale, ed ero curiosa pure di provare a stare qui.
Però, tra il viaggio a Miami, che è stato corroborante però prendere gli aerei è sempre stancante (per andare all’aereoporto a Miami ci ho messo quasi due ore perchè era tutto bloccato per la ‘fiera degli yacht’, e poi dal JFK di New York ci ho messo due ore per andare a casa, aspettando airtrain e due metropolitane, che di sera non passano molto spesso … ), il cambio casa, le e-mail, pre-performance e il resto, sono davvero in tilt.
Sto lavorando come una matta per coordinare le mie performance, ossia vuol dire fare la giornalista, l’organizzatrice, la trovarobe, l’ideatrice, la trainer, la documentatrice, la webmaster e la segretaria di me stessa, cosa che è davvero arduo … e in più ci si mette la connessione internet che nella nuova casa non funzionava e l’adattamento al nuovo spazio e la dose extra di energia che ho dovuto comunque usare per questo trasloco.
Così sono stanca morta di nuovo, e piango per nulla. Ho anche molta nostalgia di Mario che è sempre su al Nord dagli Inuit, e sperava di venire a New York prima che io ripartirò per l’Italia, ma sono bloccati ancora per un mese in questo posto sperduto a migliaia di chilometri di distanza, e non hanno la possibilità di potersi fare un giro per il week-end … E questa mattina, tra la stanchezza fisica e mentale, le mille cose da preparare che mi sembra di perdere il controllo di tutto, la difficoltà di questa relazione dove non si sa mai quando ci si può vedere, ho cominciato a piangere come una fontana, debole debole debole.
Ve lo dico per essere onesta e sincera, magari pensate: che figata, è a New York, farà due nuove performances e una presentazione dei video, è andata a Miami … che culo! E sì, sono contenta e ringrazio pure di essere fortunata, ma è veramente difficile a volte mantenere questa vita, con budget limitati, e continuare ad andare avanti a fare l’artista è molto faticoso. Io continuo, continuo imperterrita, da molti anni, ho gioie e dolori, soddisfazioni e delusioni, e spesso molta, ma molta, ma molta stanchezza, come ora.
Me ne dormirei tutto il giorno, per un paio di giorni, invece devo andare a comprare delle cose per la performance, e poi tante altre cose che non ve le sto ad elencare …
E siccome l’altra notte non sono riuscita a dormire, presa da mille pensieri, ora sto fisicamente pagando questa stanchezza e sono fragile come una pagnottina di burro sotto il sole, mi sento sciogliere come se fondessi e poi sparissi …
… E so che per fare la performance della lentezza lunedì devo essere al meglio della mia forza psicofisica, perchè per poterla fare perfettamente e dare la forza all’azione ho bisogno di tutta l’energia e di tutta la concentrazione possibile. E come sempre, ormai lo so, devo calcolare un paio di giorni di ‘ritiro’ di concentrazione prima della performance, e un paio di giorni di ripresa psicofisica dopo averla fatta … Ora mancano due giorni, e sto avendo un calo per prepararmi a riprendere le forze per lunedì. Però ci sono le ultime cose da sistemare!
Uffa, a volte mi sembra tutto troppo faticoso! E, per essere in sintonia con la lentezza, me la prendo con calma …
“Lentezza come silenzio opposto al frastuono dello stress, rumoroso divoratore di ogni cosa.
Lentezza come reazione alla bulimia del voler tutto senza gustare niente.
Lentezza come metafora di una dialettica tra tempo personale e tempo sociale, tra essere e dover essere.”
Ecco il Comunicato Stampa della mia prossima performance a New York (ben due giorni di camminata a rallentatore … sarà molto faticoso, sul piano psicofisico … ) nell’ambito della V Giornata Mondiale della Lentezza. In questi giorni sto correndo e facendo di tutto freneticamente ma con la … doverosa … lentezza …
COMUNICATO STAMPA
V Giornata Mondiale della Lentezza – New York, 28 Febbraio 2011
Lunedì 28 Febbraio e Mercoledì 2 Marzo, 2011, per la V Giornata Mondiale della Lentezza a New York
LIUBA farà una nuova urban interactive performance del suo “Slowly” project chiamata “Take Your Time”
precedentemente realizzata a Milano, Basel, New York (2006), Modena.
La performance diventerà anche parte della sua nuova videoinstallazione.
LIUBA – The Slowly Project. Take Your Time
Luoghi della performance e orari*: Lunedì 28 Feb, 2011. – Union Square, Greenmarket and around (11.00am – 3.00 pm) Mercoledì 2 Marzo, 2011 – Museum Mile and MET area (10.00am – 11.30am)
-Times Square (12.00pm – 2.30pm)
– Armory Show Opening (3.30pm – 6.00pm)
*Gli orari possono variare a causa della natura imprevedibile della performance
La V Giornata Mondiale della Lentezza, ideata per attirare l’attenzione sui temi di un buon uso del tempo delle persone, in armonia con l’ambiente, si svolgerà a New York e nel mondo il 28 febbraio 2011 e ha come tema: Ambiziosi e Altruisti – Slow life, green life, better life.
La V Giornata prevede una vera e propria kermesse che vede svilupparsi oltre 100 eventi in varie città del mondo in contemporanea e per più giorni.
Le precedenti edizioni della Giornata hanno avuto come fulcro le città di Milano 2007, New York 2008, Tokyo 2009, Shanghai 2010. Nel 2011 ritorna a New York: la città ha intrapreso da tempo una serie di politiche per migliorare la vita dei cittadini quali la chiusura al traffico motoristico di alcuni luoghi simbolo, l’espansione della ciclabilità di numerose zone, la trasformazione di zone quali la High Line in zone pedonali e di completo relax, campagne contro l’obesità e contro il fumo, etc. Per questi motivi L’Arte del Vivere con Lentezza Onlus ritorna nella Grande Mela, guidata dall’amministrazione Bloomberg.
Ricevo questa notizia e mi sembra interessante divulgarla … è incredibile, questo mi piace di New York, che anche se la vita è dura nessuno si piange addosso e si cercano sempre soluzioni.
Non c’è voluto molto per rendermi conto, in questi mesi, che la crisi qui si sente eccome, e anche nel mondo dell’arte. Rispetto alla città che ho vissuto nel 2005-2006, quando venni qui per la prima volta e feci le varie mostre con la ‘pazza’ galleria (se volete leggere le avventure potete guardare il diario New York, che è come un preblog, le notizie arrivavano a tutti attraverso una mailing list) in questo periodo si respira un’aria totalmente differente. Non si sente più l’euforia, la percezione di essere al centro del mondo, con tutte le possibilità in divenire e in potenzialità.
Ora le persone tirano la carretta anche qui, l’ottimismo si è spento, altri luoghi stanno diventando il centro del mondo e da altre parti le energie sono propulsive, qui non più. E gli americani lo sentono, e ne hanno anche molta paura. Quasi tutte le persone che conosco lavorano duro, e questo vabbè, ma il peggio è che molti devono fare due lavori, o lavorare una media di 10-12 ore al giorno per sei giorni su sette perchè altrimenti ti licenziano e assumono la miriade di persone specializzate che provengono da altri paesi, disposte ad accettare salari molto bassi … Anche fra gli artisti e i galleristi non ho trovato più quella gioia ed effervescenza incontrata alcuni anni fa. Tutti gli artisti hanno un altro lavoro, spesso connesso con le loro abilità (fare video di matrimoni, cucinare e fare catering a domicilio, alcuni fanno i dog sitter, altri lavorano nella chimica o si inventano collezioni di lingerie firmate da vendere). Il punto a favore è che qui si riesce a vendere di tutto (e ancora io mi domando come fanno!) e ciascuno riesce a vendere ciò che produce o a vendere sè stesso, ma la richiesta comincia a diventare sempre più bassa.
Ma ora bando alle ciance ed ecco la notizia: il sindaco Bloomberg ha deciso di finanziare, nei prossimi due anni, l’arte a New York, mettendo a disposizione 32 milioni di dollari.
Direi che è una decisamente eccezionale iniziativa, e, scusate se ve lo dico, i nostri politici invece di farci vergognare con la sarabanda di atti osceni, potrebbero rifletterci un po’ su e , ma questo è chiedere troppo, imparare a capire che anche l’arte è un bene pubblico che giova alla società, e per questo motivo va supportata.
Et voilà, il test della notizia tratto dal Wall Street Journal:
A year after ending a charitable program that pumped nearly $200 million into hundreds of arts and social-service organizations, Mayor Michael Bloomberg is reopening the pipeline to his personal fortune through his multibillion-dollar family foundation.
Beginning Tuesday, Mr. Bloomberg’s foundation will send letters to 250 cultural groups around the five boroughs, inviting them to apply for some of the $32 million the charity plans to distribute to arts organizations over the next two years. “At Bloomberg Philanthropies, we see the arts as fundamental to New York City’s cultural and economic wellbeing,” the letter says.
(read more…..)
Se quando sono arrivata a New York dicevo che mi sentivo come in una bolla, sospesa, con tutto ancora da iniziare in questa città e con tutto lontano e ovattato ciò che era in Italia, ora al contrario mi sento come in una morsa: ho davvero corso fatto vissuto, lavorato, contattato, visto, conosciuto, esplorato .. tutto tantissimo.
La morsa è piuttosto faticosa perché praticamente tutto si svolge, si spiega, si trova e si scambia con le e-mail. Persino gli appuntamenti e la scelta dei film. Così bisogna stare incollati al computer ogni secondo (ormai la gente cammina in giro controllando le e-mail dal telefono e non stacca quasi mai gli occhi dal cellulare …) e anch’io, che poi non ho internet sul telefono, sono dovuta stare al computer tanto, troppo tempo, e poi correre di qui e di là con un freddo boia per vedere le mostre, andare agli appuntamenti, comprare ciò che serve, e poi computer: video al computer, scrittura progetti al computer, lavorazione delle foto al computer, ricerca dei luoghi al computer …
Ora sono piuttosto soddisfatta perché ho davvero spinto il piede sull’acceleratore e avrò un paio di performance importanti da fare nelle prossime settimane, e video da esporre. Ma sono arrivata a questo punto col cervello spappolato, il corpo che non regge più e mi chiede: caldo, caldo, natura, natura! Solo camminare in mezzo alle maree numerose di persone che a getto continuo schizzano e corrono per ogni dove nella città, mi causa un mal di testa e una stanchezza incredibile.
E allora mi sono detta: so cosa devo fare. Ci ho pensato su per più di due settimane, valutandone vantaggi e svantaggi, ma poi sapevo che se non prendevo un break di ossigeno e pace non sarei assolutamente riuscita a trovare la concentrazione e la forza per fare le prossime performance e per coordinare tutto (dal trovare i materiali e i vestiti che mi occorrono, alla comunicazione, al video, alla documentazione, al web).
Insomma, forse l’avete indovinato: in quattro e quattro otto ho preso un aereo e sono partita! Sono volata al caldo a Miami Beach per qualche giorno. E … finalmente riesco a scrivervi, seduta in un assolato bar sull’Ocean Drive … !
Chi mi conosce sa che per me muovermi è come respirare e che ogni luogo è un cibo di cui il mio corpo e il mio animo ha bisogno. Questa volta il bisogno di caldo e di uscire un attimo dalla morsa continua del ritmo newyorkese era vitale, e fa parte del mio lavoro in quanto performance artist. Se non ascolto ciò che mi comanda il mio corpo sono persa , e non riesco a fare più nulla.
Ancora, chi mi conosce davvero bene sa che non sono Paperon de Paperoni, e viaggio molto spesso a budget zero e godendo di un’associazione mondiale di viaggiatori di cui faccio parte (che si chiama Servas e che consiglio a tutti) in cui ci si dona ospitalità, regalandosi la conoscenza delle proprie culture e delle proprie vite. Così giro sempre con la lista – rigorosamente riservata – dei servas che esistono nella parte del mondo in cui mi trovo o in cui voglio andare, e questa volta il fatto che avevo le liste di Miami era un caso, perché me le ero fatte dare in Italia pensando di andare a Miami Basel a dicembre, cosa che invece non ho fatto perché sono partita dopo. E così qui a Miami ho trovato ad accogliermi Marilyn, che vive in un attico all’undicesimo piano di un residence sulla spiaggia di Surfside, e da lei sono stata come un pascià i primi due giorni, vegetando tra la spiaggia, sdraiata sulla sabbia odorando il profumo del mare, e la jacuzzi e la piscina riscaldata del residence (vicino alla spiaggia, con oceano davanti, naturalmente). Ero così spappolata, al mio arrivo da New York, che non ho fatto altro che risorgere piano piano al contatto del sole e dell’aria di mare. Oggi sono per un altro paio di giorni presso la numerosa famiglia di Marisol e Tom, un simpatico connubio di Messico e America, sempre membri di Servas.
E oggi, finalmente un po’ risorta (ho fino a domenica per finire la terapia e poi tornare nella giungla neworkese pronta a combattere) prendo gusto a scrivervi, cosa che desideravo da tanto con tutto il cuore (sto scrivendo su dei fogli di carta e poi stanotte amorosamente ricopierò al computer e vi spedirò).
Ho fatto colazione americana con uova e toast e patate, ordino il caffè (mi va benissimo quello americano perché è molto leggero) e mi portano un bicchiere trasparente con una cannuccia: dico: “Scusi, il caffè lo vorrei caldo e non freddo”, e mi dicono che è caldo … Ma qui va tutto con la cannuccia?? Ve l’ho fotografato perché è troppo carino: il caffè con la cannuccia sull’Ocean Drive di Miami Beach …
Non sapevo che Miami fosse la meta invernale di tutto il Nord America, l’ho imparato a New York, ed effettivamente qui per essere a febbraio è fantastico: 26-28 gradi, sole spaccante, cielo blu. Dicono che la stagione si interrompe in estate, perché il clima diventa eccessivamente caldo, umido e piovoso. Ho scelto di venire qui perché è il viaggio più economico e più facile per andare al caldo, con solo 3 ore di volo da NY e aerei con prezzi bassissimi.
Ma allora, che è successo nelle scorse settimane a New York?? Ho vissuto gli estremi di questa città, che è la norma, e che è l’esperienza di tutti: ho vissuto la parte dura di NY e la parte esilarante, ho vissuto la solitudine, la piccolezza, i problemi da risolvere in mezzo baleno, e l’esilarante luccichio degli incontri imprevedibili, la sinfonia dei mille spettacoli accessibili in ogni angolo, la grandezza dello sfarzo e della bellezza all’estremo limite, la frizzantezza di incontrare solo persone interessanti, lo stimolo infinito per la creatività e l’arte, la fatica di orizzontarsi in questa giungla e di non farsi schiacciare …
Con Mario abbiamo vissuto le montagne russe ma ora va bene, molto bene, solo che siamo a circa 5.000 km di distanza ora, con lui che è nei ghiacci del polo canadese a fare questionari agli inuit per il governo, in un posto a circa 50 sottozero dove ci si arriva solo con gli aerei perché non esistono strade …
Questa distanza ci sta pesando parecchio, ma è dolce perché gli ultimi 2 week-ends a NY li abbiamo passati super bene.
Dopo l’episodio che vi ho raccontato dell’isteria e della sua fuga a Montreal, abbiamo passato un periodo molto duro entrambi, delusi da questo amore che ci stava solo distruggendo, totalmente tristi per l’impossibilità di riuscire a vivere una logistica tranquilla, ed io pure dolorosamente decisa a mettere fine a tutto ciò perché avevo superato il limite dell’umana tolleranza, e tremendamente fragile di sentirmi spezzata e sola, in più a NY dove nessuno ha tempo nemmeno di rispondere al telefono (ed è per questo che scrivono solo e-mail, ma poi però il meccanismo si inceppa perché la mail richiede di scrivere tutto invece che semplicemente parlare …), e in una casa che non mi piaceva e con i problemi che sapete, che mi deprimeva ma che non potevo cambiare in quel momento per vari motivi.
Devo però ora confessarvi che essere a NY mi ha aiutato a far sì che io e Mario ci rivedessimo con gioia: qui innanzitutto non ho avuto molto tempo per piangermi addosso della rottura perché tutto corre e devi stare dietro a far tutto, ma soprattutto, ed è una cosa più importante, non so perché ma qui ho un successo con gli uomini strepitoso e, senza cercare minimamente, ero piena di corteggiatori tutti intelligenti giovani belli e interessanti.
Così ho pure accettato da loro inviti a feste, concerti, chiacchiere, ecc … ma più frequentavo altri uomini, senza però mettermi insieme a nessuno ma anzi parlando francamente della mia situazione e della mia fresca rottura sentimentale, più mi sentivo sola, e più mi mancava il senso di ‘famiglia’ che avevo con Mario quando andiamo bene. Mi sono accorta che mi mancava, e questo è normale, ma soprattutto che non so per quali misteriosi meccanismi e ragioni lo amavo ancora tantissimo e non sarei riuscita ad innamorarmi degli altri.
Mario intanto dal Canada soffriva a sua volta, e mi scriveva dicendo che stava male, che dovevamo parlare per decidere se lui fosse tornato a NY, che mi amava … Io non ne volevo più sapere finché una sera non stetti malissimo fisicamente, come mai ero stata da tempo, intossicata da qualcosa, e ho capito che il corpo mi dava segnali certi, avevo bisogno di Mario, e lui aveva bisogno di me, e con ‘timing’ perfetto la mattina dopo, che stavo ancora malissimo, lui mi chiamò dicendo che voleva venire a NY ed io ho detto di sì contenta.
Ci siamo rivisti come se fossimo due marziani, increduli di essere ancora qui a volerci, dopo tutto ciò che ripetutamente succedeva, ed entrambi timorosissimi di scoppiare ancora a litigare o a mandare all’aria tutto, ma commossi di vedere ancora le nostre facce.. E quel week-end è stato bello, anche se era come camminare sulle uova, non volevamo accadesse un’altra crisi e ne avevamo una paura pazza ed entrambi cercavamo di essere al massimo della disponibilità per l’altro. Che poi c’era ancora il problema della casa: Mario ha dormito nel letto che doveva essere disinfestato, ed è stato pizzicato ancora …
La domenica sera però doveva tornare a Montreal, perché stavano facendo la formazione per il lavoro dagli inuit che doveva cominciare a inizio febbraio, ma ci siamo promessi che sarebbe tornato il week-end dopo, che tra l’altro era il mio compleanno e pure l’anniversario di quello che ancora non considero un matrimonio, ma che comunque era qualcosa di importante per noi.
E così Mario ha fatto. Si è ripreso l’autobus da Montreal ed è ritornato il week-end successivo (cosa che ho apprezzato molto) e lì ci siamo detti: ora ci godiamo NY! Io ho interrotto per qualche giorno le mie stressanti attività di relazioni/contatti/e-mail/lavori con l’arte, entrambi avevamo due lire in tasca, e ci siamo dati alla, come si suol dire, pazza gioia, cercando tutto il meglio che la città poteva offrire: brunch al Blue Note con pranzo e concerto jazz nel prestigioso locale, aperitivo al “roof bar” al 35° piano di un grattacielo a Midtown, con una vista mozzafiato, visita al Metropolitan Museum (non l’avevamo ancora visto nessuno dei due perché non era una priorità come altri musei più specializzati nell’arte contemporanea, ma sapevamo che meritava di essere visitato e tra l’altro ci siamo beccati una fantastica mostra sugli albori della fotografia) e poi balletto contemporaneo nel tempio della danza al Lincoln Center e cena all’Upper West Side … Quando ci si mette New York dà una cornice esilarante a tutto, e credo che ho passato il più bel compleanno della mia vita*. Siamo stati amorosamente e intensamente insieme per 5 giorni e poi lui doveva partire per il grande Nord per un tempo che ancora non si sapeva, ma entrambi questa volta ci siamo lasciati benissimo, e seppur tristi della separazione, contenti di ciò che ognuno di noi doveva fare, io a NY con l’arte, lui dagli inuit ben pagato e avventuroso …
Certo lo scorso S. Valentino al telefono eravamo parecchio tristi, perché non si sa nemmeno se lui potrà tornare a NY prima che io parta per l’Italia, ma ormai se la vedo da fuori la nostra storia è peggio di una telenovela (nelle quali succede di tutto ma si indovina sempre cosa succederà) perché a noi succede di tutto e non sappiamo mai cosa succederà e non c’è mai una certezza…
Ora mi muovo da questo bar sull’Ocean Drive (sto mettendo le radici), alla prossima puntata vi racconterò dell’arte, anche lì stanno accadendo cose come fuochi d’artificio, che nemmeno riesco a controllare, ed ecco perché sono qui a farmi un’indovenosa di energia solare e pulizia mentale, per dare il meglio nei prossimi e vicini appuntamenti futuri.
Vi voglio bene e vi penso ad uno ad uno.
Insieme a Marylin, la mia meravigliosa ospite Servas
* AGGIORNAMENTO:
C’è stato dopo il compleanno più bello della mia vita: quello del 2019, quando ho saputo di essere in attesa di Sole!!!
E’ sempre incredibile per me vedere quanto New York cambi vorticosamente ogni volta che ci torno. Tutto si trasforma rapidamente. Prendiamo per esempio la scena artistica newyorkese.
Quando sono arrivata, a dicembre, sono andata subito per un paio di settimane alle inaugurazioni di giovedì a Chelsea nella zona delle gallerie, emozionata – e pure ve l’avevo scritto – di ritornare nel quartiere dove ero di casa e dove avevo avuto la galleria e preparato la personale nel 2006.
Ma già dalla prima volta rimasi delusa. Sarà perchè è sotto Natale – pensai – e le gallerie tendono a mostrare quanto di più commerciale hanno pur di vendere, o sarà a causa della crisi, che qui si sente eccome, che fanno proposte commerciali pur di vendere, però … pensavo, che noia!
E non ci misi molto ad accorgermi che la verve e la vitalità che c’era in tutta la zona alcuni anni prima era scomparsa. Le gallerie sono sempre tantissime, interi edifici con gallerie ad ogni piano, ma la maggior parte delle proposte sono trite e ritrite, commerciali, spesso cose tipo ‘esercizi’ che ciascuno di noi ha fatto nel suo percorso negli anni degli studi: quadri astratti con belle forme e colori, sculturine col riciclato, foto di fiori ingranditi … (belle foto e bei fiori, naturalmente, e pure molto grandi e molto costose … ). L’unico aggettivo è “boring”.
Naturalmente a Chelsea rimangono ancora i mostri sacri, quelle mega gallerie che sembrano musei con loft di 20.000 metri quadri e che controllano il mercato dell’arte di mezzo mondo (o di tutto il mondo). Non faccio nomi qui per non fare … pubblicità, ma chi ha un po’ di dimestichezza col mondo dell’arte sa di cosa sto parlando.
Però poi si comincia a notare che parecchie gallerie importanti-emergenti si sono già trasferite da Chelsea, o hanno aperto un’ulteriore sede, andando nel Lower East Side.
Già sapevo che quest’area stava crescendo vorticosamente, e questo in seguito anche all’apertura della nuova sede del New Museum sulla Bovery pochi anni fa, e da allora su questa scia molte nuove gallerie hanno deciso di aprire in questa zona, e molte vi si sono trasferite.
Basta andare in giro per le gallerie del LES per vedere finalmente delle mostre interessanti, lavori freschi, idee nuove, gallerie che esperimentano, e molto movimento. Come dicevo ci sono gallerie già conosciute, che hanno aperto qui la loro sede, e molte altre fresche di apertura da pochi mesi, già con le idee chiare e proposte valide.
Questo per parlare di Manhattan. Ma dove stanno gli artisti ora è principalmente a Brooklyn. Questo perché Manhattan sempre più diventa un luogo carissimo dove gli affitti sono impossibili e dove il costo della vita se lo possono permettere solo quei professionisti che lavorano 12 ore al giorno nel mondo della finanza, della pubblicità, della TV, moda, legge, politica e via dicendo. Ma a detta di tutti Manhattan sta diventando un contenitore vuoto, dove si arriva solo per il lavoro e poi se ne esce.
Naturale quindi che da tanto gli artisti si siano spostati a Brooklyn. Già quando ero qui nel 2005 e 2006 si parlava di Williamsburg e delle tante gallerie e locali aperti in quella zona, la più vicina a Manhattan, appena dopo il ponte (non quello di Brooklyn, ma il Williamsburg Bridge appunto). Ma già ora lì è quasi tutto finito ed è diventato un divertimentificio un po’ commerciale e non molto interessante, almeno a mio parere ( e non solo). Ho girato per qualche inaugurazione qualche tempo fa, ma dopo alcune gallerie con mostre inguardabili e stesi dal freddo boia per camminare dall’una all’altra (che non è mica come a Chelsea o anche al LES dove sono tutte vicine … ) ce l’abbiamo ‘data su’, come si dice a Bologna e non sono più tornata. Invece la situazione più emergente di tutte si è spostata più all’interno di Brooklyn in altre zone, zone tra l’altro dove puoi trovare da affittare una stanza per 500 dollari o un appartamento per 800, come è capitato rispettivamente a due miei amici.
Una di queste zone artistiche emergenti, si chiama Bushwick, e rimane dopo Williamsburg. Ed è lì che stanno sorgendo tanti artisti e tanti spazi interessanti e sinergie. E guarda caso – o forse non è un caso – anche a me sono capitate nel frattempo tutte cose connesse con Brooklyn, come la mostra qualche tempo fa (e ancora in corso) in un locale situato tra Williamsburg e Bushwick, appunto, e soprattutto la mia prossima partecipazione al SITE FEST, che è disseminato, nel week-end tra il 5 e il 6 di marzo, in diversi spazi di Bushwick, ed è un evento ufficiale della settimana dell’Armory Show in NY. E’ il festival più importante di performance e arte performativa di tutta la città, e il più emergente. Sono stata molto felice di essere stata selezionata a parteciparvi con una nuova performance e con la presentazione live dei miei video! Poi vi farò sapere e vedere, e chi di voi mi leggesse ed è a New York … sia il benvenuto!
Questo è un breve riassunto dei miei prossimi appuntamenti artistici a New York, e quella che leggete è una letterina che ho scritto agli amici newyorkesi per avvisarli delle date. Manderò in seguito i vari comunicati per ogni evento. Intanto sappiate che si prospettano due settimane molto impegnative per me, ma anche molto gratificanti!
Sono sempre felice quando ho l’occasione di esibirmi e di esibire il mio lavoro, è qualcosa di esilarante, e che dà il senso a tutto ciò che faccio e mi rende profondamente appagata.
Hi, my friends in New York!
I am very happy to announce that I’ll soon have two new performances (for three days) and one video presentation (for two days) in Manhattan and Brooklyn in the upcoming weeks.
I’ve been invited to perform my ‘Take your Time‘ performance of the Slowly project series for the ‘5th Global day of Slow living’. The performance will be in Manhattan in the following days and location:
Feb 28, monday, 11 am – 3pm in Union Square and around March 2, wednesday, 10am – 12pm in Museum Mile and around Met area; 1pm – 3 pm in Times Square and around; 5pm – 7pm at the Armory Show Opening Day.
I’ve been selected to perform and show my videos at the SITE FEST in Bushwick, Brooklyn
March 5, saturday, at 6.30 pm and March 6, sunday, at 1.30pmI’ll show my videoworks
One of the two screenings will be with my live presentation.
March 6, sunday, at 4.30pmI’ll perform a new piece, Unreal Exit at Grace Exhibition Place in Brookyn
LIUBA, The Slowly Project. Take your Time – New York, performance, 2006, videostill
From Christo’s Gates to the Statue of Liberty, New York is a tough place to compete in the realm of public art. But one organization, Creative Time, has been doing it, boldly, for 33 years, bringing fantastic explosions to the skyline above Central Park, moving images of Donald Sutherland and Tilda Swinton to MoMA’s facade and a Chinese artist’s quiet intervention — delivered with a pot of water and a Chinese calligraphy brush — to a downtown sidewalk.
At the helm for these projects by Cai Guo-Qiang, Doug Aitken, and Song Dong was Peter Eleey, who left Creative Time in March to become the Walker’s new Visual Arts Curator. Eleey took a moment away from organizing his first show here, a multidisciplinary exhibition of Trisha Brown’s dance and visual art scheduled for April 2008, to discuss his past projects, “magical thinking” in art, and the question of success and failure in a curator’s work.
Your last job was at Creative Time, an organization that since the early 1970s has used public spaces and spaces not often used for art to present temporary installations. This challenges what we traditionally think of as the art-viewing experience.
It’s true, unless we expect art to be shaking up exactly those expectations. There’s a great thing that happens when art surprises us, and that drama can often be easier for artists and arts presenters to create outside a museum. But in some ways the key to surprise is just understanding what people’s expectations are in a given situation, and of course we have all sorts of expectations inside a museum. Though I was working over the last few years largely outside of those institutional frameworks, I gradually became curious about the challenges of curating with those “ interior” expectations in mind.
As seen from New York, what was it about the Walker that you found appealing?
For one, the Walker strives to be “ more than a museum,” and this sense of the institution as something more porous, with fluid boundaries, was very attractive. Most importantly, perhaps, the Walker is known as a place of unfettered experimentation and commitment both to artists and to audiences. So often arts presenters talk about giving artists the space to experiment and try new things, and we forget that the best contemporary museums should also be places where audiences feel they have the opportunity and support to challenge themselves. I think that’s something Kathy [Halbreich, the Walker’s director] in particular should be credited with — an even-handed commitment to this kind of experimental risk-taking relationship on both sides of the table.
Durante questa settimana, qui a New York, a parte qualche giro e qualche incontro, ho lavorato quasi esclusivamente al mio Slowly Project. Qualcuno di voi conosce questo progetto, e sa che è dal 2002 che è nato e che, “lentamente”, va avanti.
Ora mi rendo conto benissimo che qui a questo progetto sto dando la priorità, perchè sta piacendo molto e perché questa tematica, qui come altrove, è molto sentita.
C’è anche una grossa novità per questo progetto, e sarà proprio qui a New York a fine Febbraio, ma non vi anticipo niente … Sorpresa!
Intanto gustatevi il demo, che non è un pezzo del video finito. Il video è ancora in lavorazione, questo è un estratto in anteprima, montato in questi giorni.
In questi giorni c’è Marina Abramovic a Bologna, ed io sono qui a New York … ci siamo scambiate i posti, come il re con la torre quando si arrocca.
Sono molto contenta che ora la Abramovic sia così popolare e che abbia un trionfo ovunque. Amo molto il suo lavoro naturalmente, e da sempre è stata la mia maestra (e qualcuno in Italia mi ha chiamato la Marina Abramovic italiana … ).
Oltre alla mostra Talent Show, incentrata come vi dicevo, su tutti quei lavori artistici dove il pubblico e l’interazione è parte integrante dell’opera (e già qui mi sentivo gongolare, perchè è una delle cose che più mi interessano e con cui lavoro da parecchio), c’era un’altra mostra interessantissima intitolata ‘Modern Women. Single Channel’ dove vengono presentati UDITE UDITE video dagli anni ’60 ai ’90 di donne che hanno lavorato col corpo, la performance e il video come documentazione. C’erano da Carolee Schneeman a Joan Jonas, da Pipilotti Rist a Valie Export (molto interessanti le cose che faceva negli anni ’60 … ), Lynda Benglis, Kristin Lucas, Dara Birnbaum.
Sono stata in ascolto visione e contemplazione per ore. E’ come se stessi ascoltando le radici del mio lavoro e mi sentivo felice, orgogliosa di essere in questo percorso, e conscia del mio esserci come artista, e pure anche orgogliosa del mio lavoro, che, davvero ora lo sento, è fatto per essere visto in un museo più che nelle gallerie, o tanto meno nelle fiere dell’arte.
Domenica inaugurava anche un’altra mostra, enorme, dedicata a una giovane artista americana che anche lei lavora con video, performance con gente comune che si vedono poi dal video, e foto. Qualcosa mi è piaciuto, ma altre cose di quest’artista molto meno, perchè erano molto ripetitive, ma interessante è il segnale della tendenza e della direzione in cui sta andando l’arte qui in America, e che credo si svilupperà presto anche da noi, per cui galleristi aprite le orecchie e fatevi avanti prima che sia troppo tardi, sono qui che vi aspetto 😀
L’altra sera Obama ha tenuto l’annuale discorso alla Nazione. (President Obama’s 2011 State of the Union speech) Si sente che la situazione è pesante, tutti sono piuttosto scontenti. Scontenti di Obama (i democratici perchè dicono che non ha fatto niente di quello che aveva promesso e i repubblicani per ovvi motivi), scontenti della situazione economica, scontenti della neve … Sto assistendo a una città sottotono rispetto a quella che avevo visto quando ero qui nel 2005 – 2006, la crisi e lo stress si sentono molto e la gente è meno allegra. Il discorso di Obama aveva come perno il paragone con lo Sputnik. In sostanza, mi hanno spiegato, quando i russi avevano per primi mandato il satellite sulla luna gli americani erano rimasti molto male. Poi hanno deciso di mettere un sacco di soldi in questa gara, hanno creato la Nasa ed hanno per primi conquistato la luna. Ora il presidente dice che la situazione è analoga: ci sono altre nazioni che stanno andando meglio di noi, ma riusciremo a fare come con lo Sputnik, metteremo tutte le nostre forze e ritorneremo ad essere la nazione leader del mondo. Solo che adesso molti americani cominciano a non crederci più, e il senso di perdere la supremazia economica mondiale li sta letteralmente terrorizzando …
Lo scorso week-end l’ho praticamente passato al PS1. Sono andata sabato con Mario, che è qui a New York per il week-end, per vedere le mostre, e poi anche la domenica, da sola, perché inauguravano delle nuove mostre, che pure mi interessavano molto.
La prima osservazione da dire è che ho avuto piacere estetico, fisico intellettuale ed emotivo, a vedere molte di queste mostre. Finalmente vedo davvero cosa vuol dire presentare delle mostre ‘curatoriali’, dove dietro a questa parola c’è davvero un lungo lavoro di ricerca del curatore e di conoscenza della materia. Non come molte volte succede che i curatori sono soltanto quelli che scrivono un testo di presentazione alle mostre, e tutto il lavoro è dato dall’artista, che crea l’opera, e dal gallerista, che investe, che ci crede, ed entrambi usano le loro risorse. Invece il curatore (e non parlo di tutti, ma parlo di una tendenza che ho visto così spesso in Italia …) arriva, scrive il testo di presentazione dell’artista – che dovrebbe piacergli, ma a volte capita che invece si debba inventare danze di parole roboanti per scrivere qualcosa – prende il suo compenso e se ne va. Perdonatemi la franchezza, ma non potevo non pensare a questo quando si vedono delle mostre curate meravigliosamente come quelle al PS1!
Altra considerazione fondamentale, che mi riempie di gioia, è che ora TUTTI i musei, i testi, le tendenze, qui a New York sono connesse con la performance, l’azione, il corpo e il video o la videoperformance. E’ una musica per i miei occhi. Una grande musica, e una grande contentezza. Ho fatto i primi passi nel 1993, arrivando alla performance per pura sperimentazione di interazione di linguaggi, per mischiare pittura con scrittura – dedicandomi ad entrambe – e ho assai goduto delle possibilità infinite che questo mezzo poteva darmi, e soprattutto anche del lato fisico, emozionale, live, carnale, dell’essere lì col mio corpo, di essere vivente in mezzo ad esseri viventi, ed è per quello che ho continuato, sempre, nonostante mille fatiche e mille difficoltà. Ma allora nessuno se la filava la performance, la maggior parte delle persone non sapeva cos’è, e i pochi restanti anche se amavano le cose che facevo, non capivano dove collocarle … ( i galleristi dicevano: ed io cosa vendo? le persone del teatro dicevano: dovresti fare corsi di dizione … i miei genitori quando gli chiedevano che lavoro fa sua figlia non sapevano che rispondere e dicevano: libera professionista …).
Sarei tentata di andare avanti a raccontarvi la mia storia di come andai poi in Brasile e fu da lì che acquisii la consapevolezza PROFONDA del corpo, andando in territori che in Italia non era possibile esplorare, ma non credo che ora vi interessi la mia storia, sto divagando, penso vi interessino le mostre al PS1 e ora ve le racconto.
La prima si intitola ‘The Talent Show’ ed è tutta incentrata su pratiche artiste che si focalizzano sull’interattività con le persone, siano essi persone di tutti i giorni o parte attiva della performance o del progetto dell’artista. La mostra cominciava con ‘la scultura vivente’ di Piero Manzoni (due impronte su un piedistallo, con scritto che si poteva salire e mettere i propri piedi sulle impronte) e un video di Andy Warhol, per proseguire con una serie interessantissima di lavori degli anni ’60 e ’70 centrati sull’interattività col pubblico. Sono stata colpita da una performance di un’artista argentina, Graciela Carnevale, fatta nel 1968, in cui aveva invitato le persone a una sua ipotetica personale in una galleria, ma non c’era nessuno show, e quando le persone erano tutte in galleria, l’artista le ha chiuse dentro a chiave …
Ora devo andare, sono stata invitata a fare a palle di neve a Central Park … dovevo finire un progetto da presentare a un produttore, ma non riesco a resistere alla tentazione, (e i giorni scorsi ho lavorato come una pazza), mi metto l’attrezzatura adatta ed esco! A dopo!
Ieri sono stata a un concerto di Gospel a Marble Church dedicato a Martin Luther King e con anche le registrazioni di Amalia Jackson, bello. Mi veniva da pensare che meno male che ci sono i neri in America. E’ grazie a loro che spesso questa terra ha questo sapore forte, di dramma e di tensione ma di forza e allegria, nonostante le difficoltà. E’ grazie alla comunità nera che ci sono state alcune delle più forti caratterizzazioni della cultura americana, come il jazz il gospel il blues. Vedere il ritmo, la danza e l’allegria del coro, dei solisti e del pubblico, era uno spettacolo travolgente, e al tempo stesso simile a tutti quelli che ci siamo immaginati o che abbiamo visto in qualche film o repertorio. Che l’America, che non si ferma mai, dedichi una festa nazionale a Martin Luther King mi sembra una cosa grandiosa, e che fa riflettere.
In questa settimana sono successe miriadi di cose. Qui tutto succede veloce, ma c’è bisogno di molto impegno e molta concentrazione, anche solo a rispondere le e-mail di tutte le persone che devi vedere. Ho avuto appuntamenti molto interessanti, davvero contenta. Non vi anticipo nulla …
Invece un’altra cosa che vi anticipo è questa mostra a Brooklyn dove sono stata invitata, nella zona emergente della città. Ormai Manhattan è un po’ stagionata e carissima, così le comunità dei giovani e degli artisti si sono spostati a Brooklyn. Prima a Williamsburg, ma ormai è inflazionato anche lì, e le cose si stanno spostando verso la parte più interna di Brooklyn.
Sono molto contenta di questa nuova mostra newyorkese che mi è capitata in un baleno, e son riuscita a stampare e montare il lavoro in un paio di giorni (altra cosa interessante è che tutto è aperto 24 ore, così il giorno dura davvero molto!).
Una cosa però che sto notando, è che la città è molto più rude e dura che l’altra volta. Forse perchè tutti devono lavorare come matti su 70.000 cose alla volta, forse per la crisi che si sente ancora (anche se dicono che è iniziata la fase di risalita), forse per il freddo e la neve, ma non è sempre facile la città. Tutti dicono che è ‘tough’ (dura) e davvero la città è dura, e tutti cercano una compagnia.
Oggi per il week-end è ritornato Mario, nonostante le litigate poi ci manchiamo e facciamo pace. In realtà questa volta ero convinta di mollare tutto, e ho passato queste due settimane anche facendomi corteggiare da persone interessanti (come dicevo, qui nessuno ama stare da solo, e quindi cerca di accoppiarsi o almeno di farsi compagnia… è forse per questo che ogni volta a New York mi sento circondata da corteggiatori interessanti e in gamba, mentre in Italia non trovo mai nessuno di gradimento, o se si trova sicuramente ha paura di accoppiarsi??). Poi però ho avuto un grande cedimento, e anche lui non vedeva l’ora che gli dicessi di tornare, e quindi Mario è venuto per il week-end, contento come una Pasqua, e contenta anch’io, anche se poi deve ripartire lunedì che andrà a fare un lavoro in mezzo agli inuit a 2000km a Nord di Montreal!
COMUNICATO STAMPA
OPENING RECEPTION: SATURDAY, JANUARY 22ND, 10PM
LOVE LETTER TO BROOKLYN
group art show
KINGS COUNTY BAR
286 Seigel Street (near corner of Seigel and Bogart)
Brooklyn, NY 11206
(718) 418-8823
Kings County Bar proudly presents “Love Letter to Brooklyn”, a group art exhibition.
As Valentine’s Day draws near, we thought it would be fun to put together an art show which gives loves not to our significant others, but to Brooklyn itself! NYC-based Artists will have a chance to show everyone why they love Brooklyn so much. As always there will be cheap drinks and great music to go along with the incredible artwork! You don’t want to miss this fun evening of art and excitement as we celebrate the awesomeness that is Brooklyn!
Participating artists include: Jeff Faerber, Alicia Papanek, Edgartista, Andrew Menos, Robert Servo, Liuba, Jess Ruliffson, Marissa Olney, Leslie Kenney, Carla Cubit, Steve Sandler, Robin Grearson and more!
Il lunedì mattina arrivo a casa e lo sterminatore ha lasciato tutto ribaltato e rigirato. Nella casa non si gira, passo tutto il giorno a pulire e disinfettare ogni cosa, porto una valigia di lenzuola e cose varie in lavanderia, acqua calda per disinfettare tutto, e per lo stress – e anche perché son fuori di melone – sbaglio pure e faccio partire la macchina senza il sapone, per cui la devo fare due volte e aspettare il doppio (40 minuti ogni macchina e una mezzora l’asciugatrice … nel frattempo aspetto due tipi che devono portare il materasso nuovo e buttare via quello che era infestato, insomma passo così tutta la giornata e disinfetto ogni cosa. Un lavoro duro ma almeno ora so che ogni centimetro di questi 25 metri quadrati di casa è a posto . Ora sono davvero pronta per iniziare e a concentrarmi solo sull’arte e sui contatti.
Notizie in breve della settimana: ho fatto il giro delle Università, parlando con persone e lasciando il curriculum e candidandomi per insegnare; incontrato Dale e preparato una performance-laboratorio sulla tematica del bullismo da fare con bambini e adolescenti in una scuola di Harlem; sono andata più volte a Chelsea a vedere mostre alle gallerie; sono uscita con diverse persone; sono andata a una festa di italians americans che all’inizio era una bolgia noiosa ma poi ho conosciuto gente interessante; sono andata al cinema a vedere ‘The Black Swan’ (discreto, anzi così così); sono andata a Williamsburg a delle inaugurazioni ma faceva un freddo porco e le gallerie non sono mica tutte vicine come a Chelsea, per cui ne abbiamo viste due o tre, e tutte con mostre poco interessanti, poi con Peter siamo finiti in un più caldo locale con musica jazz dal vivo, e poi siamo andati ad Harlem in un locale reggae; ho preso degli appuntamenti molto importanti per la settimana prossima; sono stata a un concerto gospel in onore di Marthin Luther King, di cui domani (17 gennaio) è festa nazionale; ho riflettuto sulla storia con Mario, a volte soffrendone, a volte sentendomi liberata; ho fatto colpo su diversi uomini giovani e interessanti; sono assiderata di freddo come gli altri newyorkesi in queste tre giornate di sottozero intenso (ma per lo più col cielo azzurro); ho perso e trovato chiavi occhiali e guanti; sono andata a fare pedicure e manicure con massaggio; ho scambiato e-mail focose con la persona che mi aveva affittato la casa coi bed bugs (ma ci siamo accordati su uno sconto consistente); ho mangiato un po’ di qua un po’ di là ma sempre bene, a parte oggi dove mi sono fermata al brunch a Marble Church dove il pesce era impanato crudo e il pollo galleggiava in una salsa bianca cattiva copia di una besciamella mista a budino.
Una delle cose che ho più goduto è stata la enorme mostra di Rauschemberg da Gagosian. Beh, dire Gagosian non è dire noccioline, e questa mostra era più ampia che un’antologica in un museo, una decina di capannoni pieni di almeno una cinquantina di lavori, non scherzo. E ce n’erano alcuni di un semplicità e di una bellezza sconvolgente. In quel momento che li vedevo ero davvero felice. Leggera. Quel giorno ho girato le gallerie di Chelsea con metodo scientifico e gallery guide in mano, scannerizzando tutta la situazione artistico espositiva. In un’intera giornata ho fatto solo la 21th, la 22th e la 23th street. Per chi è già stato a Chelsea sa che quasi tutte le gallerie sono enormi, spazi tipo capannoni spesso con diverse stanze e sezioni, le mostre sono spesso museali con installazioni di metri e video in schermi giganti. Finalmente, dopo le delusioni delle inaugurazioni delle ultime settimane, ho visto delle mostre interessanti e professionali, e non la solita pittura-esercizio-effetto-vendita facile che avevo visto poco tempo fa. Ciò che mi piace qui a New York è che si vede di tutto, e si vede anche tantissima qualità, e ci sono così tanti posti che ti sembra che tutti siano sempre ben disposti a considerare nuove proposte se ben fatte (cosa peraltro che è così). Da noi il senso di staticità è insopportabile ed è una delle cose che più mi opprime. Giorni addietro ho visto delle ottime mostre anche alla Location One a all’Artist’s Space in Soho, due spazi di ricerca e avanguardia molto conosciuti. E mi è piaciuta moltissimo anche una mostra alla Drawing Gallery, sempre a Soho che esponeva i lavori degli artisti ispirati ai loro ‘jobs’ per sopravvivere. Al contrario del nome della galleria non c’erano soltanto disegni, ma tutti i media, con particolare attenzione per il video.
Sono molto emozionata poiché domani mi incontrerò col famosissimo performer Tehching Hsieh, quello delle One Year Performance, di cui avevo visto la mostra al Moma l’anno scorso e con cui sono in contatto per e-mail. Ah, altra cosa interessante della settimana è che sono andata a fare un corso di yoga in un posto che si chiama Yoga to the people: tu vai lì quando vuoi, il giorno che vuoi, e partecipi al corso – ce ne sono dalle 7 di mattina alle 9 di sera in continuazione – pagando una piccola offerta. Eravamo in metà di mille (c’era anche una che aveva credo almeno una cinquantina di interventi di chirurgia estetica tra le labbra gli zigomi gli occhi le sopracciglia le tette le natiche ecc … lo dico perché era così eccessiva – o… eccessivo? – che sembrava un cartoon dei fumetti, e se ve lo racconto è perché anch’io, che sono tollerante e aperta per natura, mi sono quasi scandalizzata …), coi tappetini uno vicino all’altro, e quando è cominciata la lezione era una corsa infinita, un ritmo pazzesco. Anche lo yoga era energetico e di corsa! New York non è certo una città che ti accarezza, ma che ti sferza continuamente, e volendo o nolendo la vita ti salta addosso, tranne quando sei così spompata che devi passare alcune ore a vegetare sennò non ti riprendi più. E questo lo fanno tutti, sono così presi che anche telefonare alle persone è un’impresa, perché nessuno risponde più al telefono, piazzano la segreteria e quando emergono dall’apnea – da lavoro o da ripompamento che sia – chiamano, trovando a loro volta le segreterie degli altri, in un cerchio infinito e a volte grottesco. Questa storia è anche nata dal fatto che qui il cellulare si paga sia per chiamare che per essere chiamati. Ossia i minuti vengono contati come conversazione, indipendentemente da chi chiama o riceve. E così nessuno vuole parlare più del necessario. Ora però fortunatamente ci sono quei piani tariffari tutto compreso, e pure molto convenienti, come quello che ho io che per 30 dollari al mese ho 1500 minuti di conversazione e sms.
Il 31 mi sono divertita tantissimo, siamo andati a due belle feste, abbiamo bevuto tutta sera champagne, e ballato tantissimo a un party di due artisti gay scozzesi nell’East Village, dove mi avevano invitato le sempre informatissime Amanda e Doreen.
Ma i problemi cominciano subito dal risveglio dell’1 mattina. Quando Mario è nervoso diventa intrattabile e invece di tenerezze o romanticismi comincia a imprecare per il caldo (sì a New York gli appartamenti sono stracaldi, ( Per fortuna! Dico io … ).
Poiché in Canada mi ero beccata una specie di influenza che ho miracolosamente tamponato per affrontare il Capodanno, non potevo prendere freddo, mentre Mario anche in inverno starebbe con la finestra spalancata tutto il tempo, ma io ero raffreddata. Così si innervosisce (fa tutto da solo) scatta ed esce, io gli dico che avevamo preso l’ananas e altre cose per fare una bella colazione romantica insieme il primo dell’anno e lui si arrabbia dicendo che lo forzo, prende ed esce, ed è già la solita bufera.
Fortunatamente il pomeriggio avevamo una festa di capodanno diurna dalla famiglia che mi ha ospitato a Brooklyn quando sono arrivata, così non dovevamo stare soli, perché c’era aria di tempesta. La festa era carinissima, io sto benissimo, lui pure, poi arriviamo a casa e decidiamo di andare al cinema, andando però in giro nella zona Times Square. Litighiamo per una stupidata della strada da fare e di dov’è il cinema, ma quello che non tollero è che lui scatta imprecando ed avendo crisi di nervi, che io trovo totalmente fuori luogo e che mi spaventano. Comunque, non voglio tediarvi, ma il 2 la tensione aumenta per cretinate, andiamo a Coney Island e quando torniamo usciamo dalla metro a Chinatown. E’ sempre difficile orientarsi quando si esce da una metro a New York, perché tutto può essere sud ovest est o nord. Di solito se non mi oriento io chiedo, perché odio andare dalla parte opposta, ma Mario mi dice che secondo lui è di là. Ok, dico. Poi mi chiede conferma di cosa penso. Dico che non so orientarmi, se vuole chiedo a qualcuno. No, dice, è di là. Ok, dico, e continuo ad ascoltare la musica con l’ipod, anche per fargli prendere l’iniziativa, dato che il litigio dell’1 per il cinema era che lui si è arrabbiato che ho chiesto ad altri … così lo seguo, ma lo vedo nervosissimo, arriviamo ad Hallen Street, e mi chiede se la strada mi dice qualcosa, sì dico, ma non so dove siamo perché ti stavo seguendo, e lui comincia a diventare paonazzo, esplode in ira e in scintille trattandomi malissimo dicendo che non collaboro, ecc … io non so più che fare e che pensare, lui fa un crescendo di ira, prende e fugge, va a casa e fa la valigia, torno a Montreal dice, è meglio per tutti e due. Ok gli dico, vai se vuoi, questa volta non sconvolgendomi e non piangendo, perché era davvero assurdo il suo comportamento.
Vado al cafè internet davanti a casa ( da Nora non c’è internet) e mi chiudo in me stessa. Lui gira per New York con la valigia poi alla sera decide di rimanere. Facciamo pace, ne parliamo tutta notte, parliamo come sempre di ciò che fa scattare lui o che fa scattare me, la mattina mi regala dei fiori, io mi commuovo.
Il giorno dopo dovevamo traslocare per la nuova casa, io ero eccitatissima, lui non si sa quanto sarebbe stato a New York, ma gennaio se l’era preso libero per affittarla insieme. Trasportiamo tutto col taxi, arriviamo là è piccolissima microscopica e vecchissima, ma in Mc Dougall street nel West Village, proprio il quartiere dove Kevin mi accoglieva quando venivo a New York alcuni anni fa, e che considero un po’ ‘la mia zona’.
Io contenta, Mario contento, mi dice meno male che sono rimasto. Andiamo a cena a festeggiare.
La mattina dopo lui si alza con dei pizzichi e diventa nervosissimo. A New York c’è l’allarme, da tanto, di un’epidemia di bed-bugs, che sono animali che si ficcano nei materassi e si possono sparpagliare ovunque, e Mario è convinto che la casa ne sia infestata, e mi stressa dicendomi che dobbiamo andare via, che bisogna risolvere il problema … ecc … io non sono stata pizzicata e ho dormito benissimo, dico aspetta, non drammatizzare, ma lui vuole litigare dicendo che non lo aiuto a risolvere i problemi (cosa???? Allora perché non trova lui l’alternativa?) poiché i pizzichi sono aumentati, e sono molti, la notte seguente decide di dormire per terra, allora cominciamo ad avvisare chi possiamo del problema, ma la proprietaria è in Italia e non risponde alle e-mail, nella casa non funziona la connessione internet per cui niente skype, ecc.
Io ( e perché sempre io?? Lui mi stressa, dice che non mi occupo di lui, mi tratta male, esplode in ira, ma non fa niente di niente) chiamo l’amica della nostra affittuaria che ci ha dato le chiavi, e l’amministratore del palazzo, che dice che bisogna chiamare l’exterminator e lavare tutti i vestiti in casa, ecc, ecc. che si attiverà, ecc. ecc. Mario impazzisce, è come se dà la colpa a me, e tutto diventa incubo, la casa vecchia e sporca, Mario fuori di testa coi pizzichi dei bad-bugs, io terrorizzata dai suoi furori … Mario dorme un’altra notte sul pavimento. La mattina appena alzata vado in pigiama nel cucinino (l’unica altra parte della casa, dove lui ha dormito) e Mario mi apostrofa trattandomi male dicendo che col mio pigiama gli porto l’infezione. Io deliro ma mi tolgo subito il pigiama – perché ho paura davvero quando si arrabbia – lo metto sulla scala del soppalco, rimango nuda e vado a fare la doccia, e lui sento che esplode come una jena che il pigiama era sulla scala del soppalco e non sopra il letto, esplode in improperi fa la valigia e grida per l’ennesima volta che se ne va, e prende ed esce con tutte le sue cose. Io rimango frastornata e piangente, arrabbiata, delusa che non funziona mai niente, e piango nella casa coi bed-bugs.
Dopo qualche ora mi telefona che è alla stazione delle corriere per prendere il bus per Montreal, io sto malissimo sento che la storia è davvero finita e forse è pure un sollievo, però mi arrabbio anche perchè come al solito lui prende e scappa, lasciando me a risolvere tutti i problemi, prende e va, come ha fatto tante altre volte … Ha preso il bus per Montreal ed io sono rimasta a New York, sono stata accolta da Janet, che pazientemente ha ascoltato i miei pianti e il bisogno di sfogarmi, e ho dormito da lei. Anche se ferita e delusa, sono triste che questo amore non porta frutti, che ci amiamo ma ci facciamo del male, e in fondo al cuore so che forse devo ringraziare Mario che sta fuggendo, perché mi dà tregua da questo rapporto che non funziona più.
Mi sono svegliata stamattina senza aver dormito quasi niente, e sono andata alla funzione in una chiesa chiamata Marble Church (non so bene a quale delle mille confessioni cristiane che ci sono qui appartiene) dove c’è una celebrazione strana che sembra un concerto e uno show, e dove ci sono persone simpaticissime, che avevo scoperto per caso i primi giorni a New York. Sapevo che dovevo farmi coccolare da Dio e da Lui trovare una risposta. Piansi tantissimo, ma anche tramite le parole dolcissime di Dale, (una giovane donna di Harlem, conosciuta l’altra volta e con cui ero rimasta in contatto, ed è stata la prima persona che ho trovato – non a caso – nella folla festeggiante del dopo funzione (lì fanno sempre incontri pranzi e feste e la chiesa è un edificio con 10 piani dove c’è di tutto) e le parole poste da Dio dentro il mio cuore, ho capito che forse è meglio così, perché tutto ciò è successo per non perdere tempo distruggendosi, ma perché devo ricominciare a focalizzarmi su di me, come avevo fatto faticosamente nell’ultimo periodo in Italia, e portare avanti gli obiettivi, andare avanti nell’arte e poter dare sempre di più questi doni, e cominciare finalmente a vivere questa città con lo stupore negli occhi e cominciare a reagire, ringraziare di tutte le persone, e sono molte e sono ovunque, che mi sono vicino e che mi amano e che desiderano fare delle cose con me (e ho avuto sentori e segnali).
Il pomeriggio sono andata di nuovo nella casa dei “bed-bugs”, doveva arrivare lo sterminatore, mi sono rimboccata le maniche e ho dovuto liberarla da tutte le cose che c’erano, era sporchissima e c’erano un sacco di cose della padrona di casa sparse ovunque che andavano imballate nei sacchetti, ecc, ecc.
Ora vi scrivo da un internet cafe, stasera ancora dovrò dormire fuori, domani risolvere dove mettere le cose, rigirare la casa come un calzino, portare tutto in lavanderia, ecc … ma questa è New York, dove tutto succede, dove tutto succede velocemente, e dove tutto è imprevedibile. Non sono arrabbiata con Mario, lo amo ancora, e amo le sue ferite, così come amo le mie ferite, provo compassione per il suo dolore, così come provo compassione per il mio dolore, ma io venendo qui ho messo tutta la buona volontà e tutto l’impegno possibile per mettere insieme una convivenza con lui, e solo a New York sapevo che la sofferenza non ha tempo per rimanere, che bisogna voltare pagina, e cercare di gioire di questa città e trarre i frutti che è pronta a darci.
Mario mi ha chiamata nel pomeriggio, mentre io stavo combattendo da sola contro i bed-bugs, dicendomi che era tristissimo e soffriva, così come anch’io gli ho detto che ero tristissima e soffrivo, ma stava arrivando lo sterminatore e bisognava che preparassi le robe di quella casa nei sacchi, non avevo più tempo per soffrire delle nostre ferite e della nostra storia che non funziona, lui era scappato, ma io ero qui da sola a New York a dover combattere la battaglia. Non so cosa succederà, so però che bisogna andare avanti, e io voglio combattere la battaglia, e vivere e gioire, e seguire le vie che ci sono preparate.
Camminando sulla 24a in direzione di Chelsea sono incominciati prustianamente ad affiorare i ricordi e le sensazioni del periodo che ho fatto a Chelsea a montare la mia mostra in galleria. Quei pazzi dei galleristi mi avevano lasciato le chiavi per un mese ed io andavo avanti e indietro tutti i giorni per montare la mostra e sistemare la galleria (cosa lunga e difficile perché loro non c’erano e qui trovare aiuti non è una cosa da ridere … ). Il percorso dal west village a Chelsea era la mia routine quotidiana e riessere ancora di nuovo nel quartiere mi ha fatto provare sentimenti strani, del tempo che ritorna, del tempo che cambia, dei luoghi che ti entrano, dell’essere qui e là, dell’identità, dello spostarsi o del rimanere, insomma una girandola quasi vorticosa di sensazioni che non certo sono facili, ma sicuramente vitali ed emozionanti.
Nonostante il gran freddo c’era sempre moltissima gente nei numerosi opening delle gallerie, spesso c’era la fila per salire negli ascensori e una gran folla festosa, rumorosa, variopinta e chiassosa da tutte le parti. Questo è ciò che rende così vitale New York, è un’esuberanza continua, senza sosta, che naturalmente stanca anche parecchio, ma gli stimoli e la vita non manca mai.
Cosa ho visto nelle gallerie? A parte qualche eccezione, mostre banali e molto commerciali, ammiccanti, fatte apposta per la vendita. Pittura pittura pittura, con effetti speciali, per stupire e sorprendere, spesso decorativa, o ripetitiva (una mostra le ennesime tele bianche vuote senza nulla, ma basta fare questo minimalismo datato!).
Non capivo se queste mostre erano così commerciali per la crisi o per il periodo prenatalizio, forse per entrambi i motivi. Ma mi sono divertita un sacco, infilandomi in questi interi edifici di gallerie dove in ogni piano c’era qualcosa, e sono incappata pure in un opening festa con nave vichinga in un enorme spazio studio alternativo che dava sulla strada con concerto rock punk e fuochi d’artificio.
Poi sono tornata ad Harlem, dove in questi giorni sono ospite di Janet, e siamo andati al Nick’s pub a vedere una live session di jazz (non pensate però che tutto ciò sia solo divertimento puro, ci sono gli stress dell’avanti e indietro di tutti i trasporti, le mail da leggere, il telefono che non funziona, la ricerca del telefono americano, le decisioni con Mario da prendere ( e i nostri continui litigi telefonici anche se non ci vediamo da 6 mesi …) insomma ancora una volta: welcome to New York, la città dove tutto succede ma dove ci si può anche sentire inghiottiti dal vortice delle cose e travolti dalle persone (come mi è successo in Times Square, dove stavo col telefonino in mano e sono stata travolta dalla folla che ha sbriciolato il telefono per terra (ma per fortuna non si è rotto ma solo smontato)
Emozionante prendere la nave a fare il tratto di mare che divide Manhattan dalle isole vicine. Già ci ero stata altre volte prendendo il ferry per Staten Island dove all’ora di punta del mattino ho anche fatto una parte della performance sulla lentezza, ma vedere il mare in una grande città è sempre un sentimento intenso.
Sto andando agli open studio dell’LMCC, un’importante organizzazione che offre residenze e studi per artisti di tutto il mondo. Farò anch’io la domanda prossimamente, e volevo vedere com’era.
Great location, un edificio con grandi vetrate che guardano i grattacieli di Manhattan dall’altra parte del canale, e almeno una trentina di studi per gli artisti, che esibivano al pubblico il risultato dei loro 5 mesi di residenza lì. Un artista giapponese mi diceva che prendere tutti i giorni il traghetto e fare quel breve tratto di mare, lo faceva entrare in una dimensione strana, sospesa, totalmente differente dalla velocità di Manhattan.
Questo che vedete è una specie di albero di Natale dentro il traghetto, non un’installazione!
I lavori degli artisti erano vari, alcuni banali e altri interessanti, c’era di tutto: dall’installazione, alla foto, alla pittura, al legno, alla scultura, all’assemblaggio…
ciò che mi ha veramente colpito è stato un video, in cui l’artista ha preso delle scene dal film ‘L’avventura’ di Antonioni con una splendida Monica Vitti, e le ha montate con scene di mare prese da Governor’s Island e New York City. Era straordinario vedere i protagonisti sugli scogli, sentire il mare che borbottava, e poi vedere gli aggressivi pontili new yorkesi e il paesaggio urbano industriale che diventava straniante all’interno del film. Brava!
Poi sono andata verso Chelsea e nel frattempo mi sono fermata in uno di quei giganti food store costosissimi e pieni di ogni cosa di ogni parte del mondo che si trovano solo qui: vagonate di cibo, confezioni, scaffali, barattoli, persone, scritte, soldi, formaggi, cibo cucinato caldo, tutto tutto tutto e queste erano altrettante installazioni. ho comprato un paio di cose, tra le quali un panettone ripieno italiano per la mia ospite, naturalmente pagando tutto carissimo (ma a parte il panettone sono stata oculata e non sono caduta in tentazioni, altrimenti ci avrei lasciato il budget di un mese, tante cose allettanti c’erano! Vi metto qui alcune foto, erano come installazioni!
Ps. Poi proprio sul cibo avrei fatto una performance, qualche mese dopo, al Grace Exhibition Place di Brooklyn.
“The world is a book and those who do not travel read only a page” S. Agostino
(Trovata mentre spulciavo da Barnes and Nobles e mi sembra perfetta!!!)
Oggi mi sentivo come essere dentro a una bolla. Ancora le emozioni sono filtrate, leggere, quasi chiuse.
Sono arrivata a casa di Martha e Marvin a Brooklyn, e anche se ho dormito bene in aereo sono ancora un po’ frastornata dal cambiamento. In una bolla: non più nelle cose e nella realtà italiana, ma lenta e col piede che ancora sfiora l’acqua nella realtà newyorkese. Però è bello che affiorano tutti i ricordi e i sapori delle altre mie volte qua, ed è intenso riassaporare qualcosa che è estraneo ma anche familiare, qualcosa che conosci ma che appare solo quando sei qua. Oggi pranzo-cena a casa, cucina deliziosa di Martha e molto relax. Poi sono uscita e al pub dietro l’angolo c’era un meraviglioso concerto di quartetti d’archi con musica classica contemporanea. Naturalmente ci sono arrivata per caso, ed era quello che mi ci voleva. Questo è anche New York, e lo adoro.
Marvin, Ruth e Alicat
Al Brooklyn Museum, vedendo la sezione dell’arte africana, ho pensato che le danze tribali dei vari gruppi etnici sono delle performance, nel senso più stretto che dò a livello artistico di questa parola, e che le origini e il bisogno di ‘performare’ per comunicare con i simboli è una pratica usata dall’uomo sin da tempi lontanissimi, anzi necessaria sin dalle origini. Perché non riprendere la performance come danza tribale?
In una coppia di totem nigeriani, usati per sorreggere la casa, in quello di sinistra a sostenere tutto, in basso, è la donna, la quale sostiene pure il suo seno. Sopra la donna sta l’uomo e l’uomo però è su un asino sorretto dall’animale … Sopra l’uomo sta il basamento per la casa. Nel totem di destra è l’inverso, ma l’uomo sta sempre sull’asino …
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