114. Il pozzo e la gioia, le fasi della creazione

Sto preparando assiduamente dei nuovi lavori polittici col materiale fotografico di tutte le fasi del progetto ‘The Finger and the Moon‘. Sto lavorando tantissimo e initerrottamente da poco prima di Natale, quando si è concretizzata la mia partecipazione a una importante esposizione a febbraio al Flash Art Event. Sto preparando anche una performance nuova, ma per la performance sono oramai molto abituata a lavorarci e il grosso della mia preparazione si svolge nella mia immaginazione, pensiero e corpo, nonostante poi ci sia una fase di ricerca materiali (prove no, non amo fare prove delle performance, non ne ho mai fatte perchè fare una prova senza il pubblico per me non ha senso e abbassa l’energia del lavoro). Invece per questi nuovi lavori fotografici sto affrontando qualcosa di seminuovo che mi stimola molto ma anche mi costa una grandissima fatica decisionale.

 

Diciamo che sto lavorando in maniera compositiva e a collage. Usavo fare moltissimi collage già dai miei primi inizi, con moltissimi materiali, e anche con ritagli di riviste, e ci ho lavorato fisicamente per alcuni anni. Poi la tecnica del collage è passata dentro il computer, e mi rendo conto adesso che tutti i miei video si basano sul collage, collage delle ore e ore di riprese delle mie performances (da uno o più cameraman) selezionate al microscopio e giustapposte per creare una sequenza che renda l’emozione, la concettualità e l’interattività del progetto (parlo naturalmente delle performance in contesti di vita reali, che io chiamo ‘urban interactive performances’).

E ora adesso sto cominciando a lavorare al collage di composizioni dalle foto delle performances, per creare delle nuove opere che abbiano l’intensità visiva, lo spessore del progetto dal quale nascono, la valenza concettuale e la valenza estetica. Devo ringraziare il mio curatore Mark Bartlett che mi ha stimolato in questa direzione, in funzione della mostra che sto preparando e che lui curerà. E’ stato molto stimolante e bello lavorare insieme al curatore per alcuni giorni, adoro la collaborazione fra le persone e insieme abbiamo fatto davvero quella che, a livello profondo ma non succede quasi mai, dovrebbe essere l’interazione fra il curatore e l’artista nella creazione dell’opera.

 

Ok, dunque, mi sto divertendo molto a creare questi nuovi lavori però quanto stress e quanta fatica anche! Un po’ per la scadenza ravvicinata, un po’ per la decisione infinita dei vari elementi (comprese le dimensioni, e la confezione, che non è cosa da poco), un po’ per l’accumularsi di cose e di pensieri, un po’ per le spese di produzione onerose che questi lavori comportano, ho vissuto queste settimane con intensità, emozioni, tremore, paure, insicurezze, esaltazioni, divertimento, sudore e nottate.

 

Vi sto scrivendo questo post, non solo per condividere le mie fatiche e i miei pensieri, ma anche per dare un segno di solidarietà a chiunque si cimenti nella creatività e si sente scoraggiato o sopraffatto dalla fatica. Ebbene sì, scoraggiamento fatica, paure sono all’ordine del giorno in questi casi. Però non bisogna mollare, perchè l’emergere di queste paure e di queste fatiche le rende gestibili e anche vulnerabili, per cui arriva un momento in cui le paure spariscono e le fatiche si sciolgono (ve lo immaginate quanto bello è questo momento??) finalmente ci sentiamo di nuovo a cavallo e al timone della nostra impresa, e con gioia e divertimento proseguiamo con lena, in quel momento di solito si riesce a vedere finalmente chiaro e tutto ciò che rimaneva non scelto si comincia a dipanare verso una risoluzione e una forma.

 

Quali sono le paure che più mi hanno sfidato in questi giorni? (le cito e le nomino, perchè nominarle vuole già dire riconoscerle e riconoscerle vuol dire non farsene spaventare e infine farle dileguare).

Primo, la paura di sbagliare, di fare qualcosa che va bene ma con qualche particolare sbagliato che fa crollare tutto. Questa è una paura che si innesca con la rabbia contro noi stessi e la lotta contro la nostra imperfezione. Poi, di conseguenza, la paura di non essere all’altezza della situazione: scadenza importante, stress a tremila! paura di mangiarsi la possibilità, paura di essere derisi, paura di essere rifiutati… Poi viene anche la paura di spendere e la paura di spendere male. Per produrre questi lavori in grande occorrono un sacco di soldi (e questa volta purtroppo devo sostenere le spese di produzione) e subentra la paura di non farcela economicamente, oppure di non potersi permettere la soluzione migliore, oppure di spendere un sacco e non avere la qualità che ci si aspetta.. e quando si lavora forsennatamente per un opera si vuole il risultato migliore, specialmente per quanto riguarda la produzione che è qualcosa in più e di diverso rispetto al lavoro artistico.

 

Poi ci sono le stanchezze, e vanno dal mal di testa colossale per stare sempre incollati al computer con la tensione decisionale, al male al collo e  cervicale per gli stessi motivi, alla fatica di non riuscire più a fare altro e avere nella mente tutto ciò che si sta trascurando e si deve fare dopo, alla fatica di non poter ‘polleggiare’ (questa parola si usa solo a bologna, ma quanto la adoro!) tutto il tempo che si vuole (quando la scadenza è molto ravvicinata, ma le scadenze, per una magia strana, sono SEMPRE ravvicinate..!).

 

Allora a volte ti prende l’ansia di non farcela, di buttare via tutto e di dirti chi te l’ha fatto fare (tanto l’hai scelto tu), e ciò che stai facendo ti diventa pesante, a volte insopportabile, e fonte di sofferenza. Poi però arriva il bello! Anzi il bello arriva anche prima. (Di solito a me capita che inizio con gioia, poi sprofondo nel pozzo, poi ritorno alla gioia… sarà mica la dialettica hegeliana di tesi antitesi e sintesi che governa il mondo della psiche?). Il pozzo arriva sempre come un sandwich tra l’entusiasmo dell’inizio e le gioie della realizzazione. Per cui non preoccupatevi se vi capita di cadere nel pozzo… è normale! L’importante è sapere che si risalirà, che si risale sempre, che le paure e le fatiche scompaiono o non sono più nocive, che si ritorna sempre nell’aria fina a respirare la gioia della creazione e della libertà estrema di creare un mondo immaginario e parallelo che a poco a poco prende forma, diviene reale e comincia a vivere di vita propria.

 

Ecco, questo post lo dedico a tutti creativi, a chi cammina in una direzione, a chi ha dei sogni, a chi cade nel pozzo, a chi ama essere libero, a chi pensa di non farcela più, a chi continua, a chi continua sempre.

 

 

 

The Finger and the Moon #5 – Polyptic 1, 2013, collage di photo di performances su carta baritata, cm. 130 x 80, ed. 6

 

 

 

 

 

The Finger and the Moon #5 – Polyptic 2, 2013, collage di photo di performances su carta baritata, cm. 130 x 80, ed. 6

 

 

105. La performance collettiva a Genova: prime impressioni

Devo essere sincera: sono stata molto contenta dell’esito della performance collettiva The Finger and the Moon #3 che abbiamo fatto a Genova e dell’adesione entusiasta di molte persone. E’ stato un lavoro lungo più di un anno, dall’ideazione al coinvolgimento del curatore e del Museo, dalla ricerca antropologica al lavoro sul campo, dalla strutturazione alla regia.

 

Mi interessa molto lavorare in progetti dove la gente comune, gli abitanti di un luogo, diventano i protagonisti e i co-interpreti della performance. Mi piace l’idea di un’arte che è fatta di persone, in cui ciascuno diventa parte dell’opera. In più, se aggiungiamo che queste persone che mi ero ripromessa di portare a partecipare alla performance dovevano essere di diverse fedi religiose e di diversi credo, si vede subito come questo progetto non fosse così facile e anzi molto ambizioso. (v. i  preparativi nei post  90, 91, 92, 103)

 

Molti sanno, e qualcosa ho anche scritto su questo diario, che ci sono stati momenti molto difficili, di sconforto, di fatica, di dubbi e di ostacoli. Però diciamo che non potevo e non volevo lasciar perdere, per la forza con cui credevo in questo progetto, ma anche in onore di quei donatori che hanno contribuito a sostenere il progetto, chi con poco chi con molto.

Per cui ho continuato a tirarmi su le maniche, stringere i denti e lottare, con l’aiuto di molte persone, e dobbiamo tutti ringraziarci a vicenda se il bersaglio è stato centrato e la performance riuscita, con pure molta partecipazione (dato l’argomento delicato del progetto la realizzazione della performance non era assolutamente scontata…).

 

A fare la performance insieme a me sono venute 12 persone, tra le cui musulmani, baha’i, sikk, induisti, ebrei, atei, pacifisti. Molte persone sono venute come pubblico, partecipando emotivamente all’evento dall’esterno, lasciandosi coinvogere dalle videoinstallazioni e dalla performance. Molti altri hanno aderito ma per impegni personali non hanno potuto essere presenti quella sera.

 

Ero tesa sino a pochi giorni prima per il fatto che non sapevo fino all’ultimo quante persone avrebbero potuto presentarsi. Di molti avevo fiducia e certezza, però un conto è dire sì partecipo, un conto venire davvero, e venire prima per le prove, e coinvolgersi, e metterci il proprio corpo, la propria faccia.
E’ stata un’esperienza umana, emotiva, spirituale e artistica molto intensa per tutti. Sono felice e sono anche un pizzico orgogliosa, poichè posso dire che è stata una vittoria.

 

In altro momento e in altro luogo (v. il blog del progetto: the finger and the moon blog) vi racconterò più dettagliatamente della performance e a poco a poco ci saranno foto, video, backstage (ho un sacco di splendido materiale sul back stage), elementi, impressioni, commenti.

 

 

Preparazione prima della performance coi partecipanti

 

 

 

The Finger and the Moon #3, Chiesa sconsacrata di S.Agostino, genova 2012 (photo: Mario Duchesneau)

 

 

82. Occhi e vuoto in Flushing, Queens

Come vi dicevo nel post precedente, alcuni giorni fa sono andata a Flushing, capolinea della linea 7 nel Queens.
Mi avevano detto che in quella zona c’era un’area piena di templi di ogni religione, uno accanto all’altro. Poiché ciò mi interessa molto, per il progetto delle religoni che sto sviluppando, e per la serie fotografica a cui sto lavorando qui a New York sulle varie – e strane – e numerosissime chiese, e templi, e luoghi di culto di ogni ordine e grado, ho preso la mia metro e sono andata in fondo al Queens a Flushing.
Devo premettervi però, per darvi l’idea dei miei ‘feeling’, che nei giorni precedenti era piena primavera, con sole tipo maggio e un’esplosione di fiori. Vi metto la foto, finalmente mi sono comprata una buona macchina fotografica da tasca e giro facendo le foto … , mentre quel giorno, poco dopo essere uscita, mi ero accorta che era inaspettatamente freddo ed ero vestita inadeguata (ma non avevo voglia di tornare indietro a cambiarmi). Inoltre, il cielo era cupo e grigio e umido, come i giorni di autunno a Milano …

 

 

 

Con questo sfasamento metereologico nelle ossa e un po’ infreddolita, scendo dalla metro 7 accompagnata da un fiume di gente e mi trovo in mezzo a una super brulicante altra Chinatown dove faccio straordinarie foto di cibo ammassato sulle strade e cheap chino take away food (mamma mia … ), che vanno bene per il mio progetto sul cibo, ma mi mettono un po’ di depressione (queste foto sono un progetto artistico inedito, e non ve le metto qui … 🙂
Rimango attonita al vedere un formicolio di gente, di cose, di volti, di tutte le razze ma tutti grondanti povertà e fatica. Vado un po’ di qua e di là, ma non c’è traccia dei templi, o almeno io non trovo nulla. Chiedo alle persone, ma non trovo quasi nessuno che parla inglese (?!), quei pochi che lo parlano mi guardano diffidenti quasi mandandomi a quel paese con gli occhi.

 

Gli occhi.  Ho girato e rigirato per quelle strade infreddolita alla ricerca dei templi, e vedevo occhi spenti, occhi zombi, occhi vuoti, occhi arrabbiati, occhi depressi, occhi rassegnati …
Percepivo e sentivo sulla mia pelle la fatica di vivere, l’abbruttimento della miseria, la diffidenza di chi ‘resiste’ e non pensa … Questi corpi, questi occhi, queste energie mi erano entrate dentro la pancia e vagavo per le strade di Flushing assorbendo tutte queste vibrazioni e sentendomi anch’io contagiata, arrivando a sentirmi piccola, fragile, brutta, sola, inutile … Non ho mai visto una concentrazione così fitta di persone abbruttite dalla vita.

 

Non ho visto qui la miseria nera che si può trovare in altre zone del mondo, ma la noia la cattiveria la diffidenza e l’abulia di chi fa una vita dura, di chi fa una vita piena di fatica e poca gioia, di chi è abituato a stare nel ghetto (nei margini lottando per non sprofondare) e diventa di pietra per sopportarlo … Sento ancora quelle sensazioni addosso, e vedo ancora quegli occhi vuoti senza pupille spenti dalla vita.
Sono stata malissimo. Purtroppo o per fortuna ho delle antenne sensibilissime, ultra sensibili, per captare le energie e le cose che non si vedono – ma che ci sono. Questa sensibilità mi aiuta a penetrare i livelli di profondità dell’esistenza, a percepire istintivamente le persone, a capire e sapere le potenzialità e le energie dei luoghi, ad avere un intuito sottilissimo … però fa sì che spesso io sia contagiata da queste onde sottili e mi accorgo a volte di assimilarle, senza potermi difendere, come se un grande vento mi arruffasse i capelli e non ci puoi fare niente ( i capelli tornano a posto solo quando vai via dal flusso del vento … ).

 

Spesso mi accorgo che gli altri non lo vedono questo ‘vento’, ma io lo percepisco spesso, lo sento, e a volte non riesco a difendermi se non andando via. Ciò mi capita ovunque: a Milano per esempio, quando percepisco le ondate di stress della città che mi si sbattono in faccia impedendomi a volte di pensare anche se sto tutto il giorno in casa, o quando devo spostare un letto per riuscire a dormire … sono una dormigliona e non ho mai problemi a dormire, ma a volte mi capita di dormire in letti – e sapete che viaggio parecchio … – in cui non prendo sonno e rimango con gli occhi sbarrati sentendo energie che mi impediscono di dormire … poi ho imparato che risolvo la faccenda spostando in qualche modo il letto o spostando la direzione in cui dormo, e subito mi addormento.

 

Allora, l’altro giorno nel Queens è stato doloroso e drammatico, ho vagato anch’io come una zombie – e non ho trovato la zona dei ‘templi’, solo qualche chiesa o sinagoga o tempio sparso qua e là, come ovunque a New York. Sono tornata a Manhattan e ho vagato tutta la sera come una zombi anch’io, senza meta e senza senso (ricordo di essere andata verso Wall Street per un supposto concerto a Trinity Church alle 7 che non c’era, poi ho preso il treno per Brooklyn, ho preso un caffè e sono tornata indietro, ecc… ecc … ).

 

Questo è il risultato della giornata a Flushing…vi pubblico questa foto in anteprima. All right reserved.

 

 

New York è 20 città al tempo stesso, ci sono zone giganti, zone ricchissime, zone solo di lavoro, zone di business, zone di vita di strada, zone di divertimenti,  zone di certe categorie di negozi, zone sporche, zone verdi, zone rumorose, zone tipo paese, zone ultratecnologiche, zone afroamericane, zone russe, zone cinesi, zone coreane, zone ebraiche, zone ispaniche, zone indiane, zone commerciali, zone residenziali, zone di gallerie, zone di teatri, zone di barche, zone di disperazione, zone di gioventù, zone di milionari, zone di reazionari, zone di vacanza, zone di fatica, zone di depressione, zone di euforia … e ovunque tanta gente, tanta umanità, miriade di storie, talenti, sentimenti, capacità, idee, consumi. Numeri immensi, così come spazi immensi, giganti, e movimenti e flussi senza fine. La vita scoppia gira esplode giganteggia soffre esulta ama cade e sussurra in questa metropoli che è il mondo, e che non si ferma mai.

 

 

(Testo scritto sempre sul bus cinese, di notte, sul mio quadernino, mentre tornavo da Washington).