62. Art Basel Miami Beach … il quasi arresto per la performance

Continuo a ricevere messaggi curiosi che vogliono sapere come è andata a Miami e che cosa ho fatto … Ed eccomi qui a raccontarvi tutto e a mandarvi un po’ di immagini. Sono stati 9 giorni di fuoco, di emozioni, di delusioni e di fiamme, per fortuna finite e ritemprate da un bagno fantastico nell’Oceano e dagli ultimi due giorni di sole rigenerante.

 

Devo riconoscere che sono partita per Miami con l’idea di fare una performance piuttosto semplice ma anche piuttosto ‘disturbante’, sebbene ironica o forse nemmeno tanto … diciamo che mi interessava enormemente fare un’azione che mettesse in risalto il carattere effimero e piuttosto schiacciante del sistema dell’Arte con l’ A maiuscola, quello del potere, dei tanti soldi e delle gallerie superstar, che è rappresentato forse con la potenza più esplicativa proprio ad ART BASEL MIAMI, che a detta di tutti sta diventando – o è diventata – il polo catalizzante di tutta la cream del mondo dell’Arte. Quasi ancor più dell’Armory Show di New York e della stessa Art Basel, mi dicono. Diciamo che volevo usare Art Basel Miami Beach come materiale del mio lavoro e come paradigma di un sistema potente e spesso effimero in sè stesso.
Però già prima di partire sapevo che questo lavoro che andavo a fare poteva essere un po’ disturbante, e che potevo essere bloccata o interrotta dopo poco … ma dato che il caso e la sorpresa e il contesto sono alcuni degli ingredienti fondamentali del mio lavoro e ciò che mi interessa approfondire, sono partita ugualmente alla carica …e anche un po’ allo sbaraglio perchè le mie condizioni psico-fisiche erano piuttosto provate dal trambusto del viaggio e della logistica.

 

 

 

Vi ho già raccontato nel post precedente del nervosismo galoppante, della stanchezza allucinante e dell’arrabbiatura del viaggio, e di come sia arrivata alla casa in cui ero stata invitata dagli italiani con i nervi a fior di pelle. Mi ero portata dei lavori piccoli in valigia, attentamente imballati, e dei video, da esporre in questo spazio americano (è molto grande, mi avevano detto, porta tutti i lavori che vuoi e i video!) e poi mi sarei dedicata alla mia performance a a vedere le mostre in giro per Miami. Forse sarebbe arrivato anche Mario da Montreal, avevo piacere e paura al tempo stesso di vederlo, anche perché non sapevo bene nemmeno io dove avrei dormito e in che situazione, a parte i giorni in cui sarei stata accolta calorosamente da Marilyn.

 

Non vi sto a tediare col racconto catastrofico dei primi tre giorni, la persona che mi aveva invitato aveva fatto un sacco di casini e tutto era diverso da ciò che mi aveva detto. Ho vissuto delle emozioni tristi e interiormente faticose. Problemi con l’ospitalità e problemi con lo spazio della mostra. La situazione non mi piacque affatto, e nemmeno mi interessava più, così decisi che non valeva la pena esporre con loro e di dedicarmi solo alla mia performance e a qualche giorno di vacanza. In realtà ero arrabbiatissima sia con loro che con me per questa situazione, con loro perché mi avevano dato informazioni vaghe e piuttosto diverse dal vero, con me perché sono una entusiasta e credulona, e avevo aderito a qualcosa di cui già i giorni prima della partenza avevo ‘nasato’ che era organizzata poco bene.

 

 

Sembra che in America il sistema dell’Arte sia sia abbondantemente ripreso dalla breve crisi dell’anno scorso e tutta Miami si è riempita di ricchissimi collezionisti con yacht e aerei privati alla caccia di acquisti forsennati. Ed è pazzesco come tutti, chiunque, in ogni dove, cerchi di esporre e di tentare la fortuna che qualche ‘buyer’ gli compri a peso d’oro le sue opere … E’ impressionante e forse un poco nauseante. Durante Art Basel, oltre alla Fiera principale al Convention Center, c’erano ben altre 22 fiere … Oltre a queste 22 Fiere, Art Basel, arte pubblica sparsa nella città, c’erano caterve di loft e capannoni industriali nella zona di Wynwood – che è il nuovo quartiere delle gallerie, prima chiamato ‘design district’, e in cui era situato lo spazio dove avrei dovuto esporre anch’io – con ogni tipo di artisti, di opere, di pastrocchi, di kitsch, di opere di dimensioni monumentali, di saltimbanchi e imbianchini, tutti a cercare di farsi vedere e di esporsi ed esporre e poter farsi comprare.

 

Certo, alcune cose belle le ho viste – eccellente soprattutto lo spazio enorme della collezione Margulies, davvero incredibile, sia per le opere, sia per la location, sia per la cura dell’esposizione. Lì mi sono davvero emozionata. (guarda il sito)

 

“Marty Margulies has collected one of the most expansive and impressive collections of contemporary art in the world. Although the warehouse does not look like much from the outside, inside it houses not only an immaculate collection of sculpture and installations, but an archive of photography and priceless pieces.
Any art lover will recognize everything from Barry McGee to original Jasper Johns. The most impressive thing about the Margulies Collection is the diversity and foresight. They have large scale installations, paintings, video art dating back into the eighties before the movement. Sometimes they even have performance pieces on display”

 

 

 

Ho naturalmente visto altre opere ottime e altre buone, sia nella Fiera che in altre location, però l’impressione generale è di un grande luna park divertimentificio e macchina-per-spremere-i-soldi che mi ha lasciato estremamente perplessa, o irritata o abbacchiata, come se ci fosse una ruota del lotto che premia alcuni artisti e altri no, e dove chiunque può prendere delle lastre di plexiglass, metterci degli scarabocchi, dire che è arte e trovare chi le compra a peso d’oro. Beh, forse esagero, ma spesso la sensazione è questa qui e anche nella fiera principale, con gli artisti già affermati. Basta vedere lo stand di Gagosian, o delle altre few top galleries, pieno zeppo di gente come se si fosse nel quartier generale del Presidente o a colazione da Tiffany, per vedere che il valore delle opere esposte è per lo più dato dal plus valore di chi le espone … non è certo una novità, si sa come funziona il sistema dell’Arte – e non solo quello dell’arte – e non ho scoperto l’acqua calda, ma vedere tutto ingigantito in quelle dimensioni è come avere una grande lente di ingrandimento, e vedere davvero bene …

 

 

E’ in questo turbinio di emozioni e di sentimenti (accentuate anche dal fatto che Mario era arrivato ma come al solito litigavamo tutto il tempo per cose banali ed ero come se fossi esasperata da tutto e da tutti … ) che arrivò il giorno in cui avevo deciso di fare la performance: il sabato, giorno di un’affluenza inverosimile.

 

Avevo già fatto il sopralluogo il giorno dell’opening, e avevo deciso che avrei cominciato la performance nell’ingresso della Fiera e nella Hall dove la gente passa prima di accedere agli stands veri e propri. Questo per una questione logistica di struttura, di materiali e di funzionalità.

Ho deciso di portare a Miami, per completarlo ed esaltarlo, il nuovo lavoro che avevo cominciato questa primavera nella rassegna di performance alla Naba curata da Marco Scotini e Giacinto di Pietrantonio  (The invisible web of the italian Art System v.post e foto): costruire una ragnatela di fili invisibili che avvolge cose persone e spettatori, visualizzando in questo modo il labirinto del sistema dell’Arte e la sua capacità di prenderti nella morsa, e magari imprigionarti, oppure  bloccarti i movimenti … Un filo invisibile come invisibile è il web dell’Art System, invisibile ma a volte asfissiante come una ragnatela.. .

 

A Miami ho cominciato a tessere questa ragnatela legando il filo a una colonna dell’ingresso principale, per poi andare avanti e intanto, ad altezza busto perché non fosse pericoloso, dipanare la matassa del filo, coinvolgendo architettura e persone.

 

 

 

The performance The invisible web of the Art System at Art Basel Miami has started!

 

Ma non feci che poco più di un minuto di performance che una guardia mi si scagliò addosso prendendomi il filo e strappandolo coi denti gridandomi se ero pazza.
Allora delicatamente mi diressi all’indietro verso il primo grande atrio dell’entrata e lì ricominciai a tessere la mia ragnatela legando il filo a un altra colonna e procedendo tra la gente, quand’anche qui fui interrotta da un guardiano e poi a raffica arrivarono lo show manager, un poliziotto, una direttrice della sicurezza e non so chi altro, gridandomi come forsennati che ero pazza e che mi avrebbero portato in prigione.
… Io gli dissi che era una performance … loro diventavano sempre più aggressivi, erano fuori di sè come se io fossi un attentatore con una bomba pronta ad esplodere addosso … C’era una guardia in particolare che mi guardava con due occhi pieni di odio, e diceva che voleva portarmi in prigione per quello che avevo osato fare … (vi rammento che mi hanno bloccato dopo circa un minuto).
Era un po’ come Davide contro Golia, the “Big System” che si scagliava contro di me. Una macchina gigante che si scaglia contro un micro elemento che gli dà fastidio. Certo, forse in fondo in fondo avevano ragione, forse poteva creare scompiglio (è ciò che volevo, no?) o forse anche poteva essere pericoloso (però ero conscia di stare bene attenta e tiravo il filo in basso) ma esemplare è stato il commento della mia amica Marilyn, che era venuta per vedere la performance e che la sa lunga, in quanto vive a Miami da più di 30 anni e ha diretto un importante albergo: questa fiera fa girare SO MANY MONEY che non possono nemmeno concepire che succeda un minimo incidente o un fuori programma, perché avrebbero dei guai di immagine che farebbero finire questo bengodi … (questo è il succo di ciò che ci ha detto, tradotto con parole mie).
Quando finalmente mi hanno ‘liberato’ e lasciato uscire dall’edificio, la guardia più cattiva mi sibilò: e se tu o i tuoi amici (nel frattempo avevano visto il cameraman e Mario che faceva le foto e Marilyn che mi difendeva) osate farvi rivedere dentro THIS BUILDING, you will go to prison immediately!

 

 

 

 

 

Il giorno dopo, quando la Fiera non c’era più, tornai all’edificio, e ho tessuto da sola una ragnatela di fili invisibili nel quale sono stata imprigionata … la ragnatela esiste ugualmente, la performance pure, anche se alla Fiera è stata bloccata. D’altronde il mio lavoro si basa essenzialmente sul caso e su ciò che le mie azioni performative provocano.

 

 

 

 

 

 

 

LIUBA, “The invisible web of the Art System”, performance, 2011 (photo credits: Mario Duchesneau)

 

Se volete sapere i precedenti della partenza, la decisione improvvisa e il viaggio allucinante, leggete il post precedente

17. La disinfezione, la pulizia, la ripartenza e le mostre

Il lunedì mattina arrivo a casa e lo sterminatore ha lasciato tutto ribaltato e rigirato. Nella casa non si gira, passo tutto il giorno a pulire e disinfettare ogni cosa, porto una valigia di lenzuola e cose varie in lavanderia, acqua calda per disinfettare tutto, e per lo stress – e anche perché son fuori di melone –  sbaglio pure e faccio partire la macchina senza il sapone, per cui la devo fare due volte e aspettare il doppio (40 minuti ogni macchina e una mezzora l’asciugatrice … nel frattempo aspetto due tipi che devono portare il materasso nuovo e buttare via quello che era infestato, insomma passo così tutta la giornata e disinfetto ogni cosa. Un lavoro duro ma almeno ora so che ogni centimetro di questi 25 metri quadrati di casa è a posto . Ora sono davvero pronta per iniziare e a concentrarmi solo sull’arte e sui contatti.

 

Notizie in breve della settimana: ho fatto il giro delle Università, parlando con persone e lasciando il curriculum e candidandomi per insegnare;  incontrato Dale e preparato una performance-laboratorio sulla tematica del bullismo da fare con bambini e adolescenti in una scuola di Harlem; sono andata più volte a Chelsea a vedere mostre alle gallerie; sono uscita con diverse persone; sono andata a una festa di italians americans che all’inizio era una bolgia noiosa ma poi ho conosciuto gente interessante; sono andata al cinema a vedere ‘The Black Swan’ (discreto, anzi così così); sono andata a Williamsburg a delle inaugurazioni ma faceva un freddo porco e le gallerie non sono mica tutte vicine come a Chelsea, per cui ne abbiamo viste due o tre, e tutte con mostre poco interessanti, poi con Peter siamo finiti in un più caldo locale con musica jazz dal vivo, e poi siamo andati ad Harlem in un locale reggae; ho preso degli appuntamenti molto importanti per la settimana prossima; sono stata a un concerto gospel in onore di Marthin Luther King, di cui domani (17 gennaio) è festa nazionale; ho riflettuto sulla storia con Mario, a volte soffrendone, a volte sentendomi liberata;  ho fatto colpo su diversi uomini giovani e interessanti; sono assiderata di freddo come gli altri newyorkesi in queste tre giornate di sottozero intenso (ma per lo più col cielo azzurro);  ho perso e trovato chiavi occhiali e guanti; sono andata a fare pedicure e manicure con massaggio; ho scambiato e-mail focose con la persona che mi aveva affittato la casa coi bed bugs (ma ci siamo accordati su uno sconto consistente); ho mangiato un po’ di qua un po’ di là ma sempre bene, a parte oggi dove mi sono fermata al brunch a Marble Church dove il pesce era impanato crudo e il pollo galleggiava in una salsa bianca cattiva copia di una besciamella mista a budino.

 

Una delle cose che ho più goduto è stata la enorme mostra di Rauschemberg da Gagosian. Beh, dire Gagosian non è dire noccioline, e questa mostra era più ampia che un’antologica in un museo, una decina di capannoni pieni di almeno una cinquantina di lavori, non scherzo. E ce n’erano alcuni di un semplicità e di una bellezza sconvolgente. In quel momento che li vedevo ero davvero felice. Leggera. Quel giorno ho girato le gallerie di Chelsea con metodo scientifico e gallery guide in mano, scannerizzando tutta la situazione artistico espositiva. In un’intera giornata ho fatto solo la 21th, la 22th e la 23th street. Per chi è già stato a Chelsea sa che quasi tutte le gallerie sono enormi, spazi tipo capannoni spesso con diverse stanze e sezioni, le mostre sono spesso museali con installazioni di metri e video in schermi giganti. Finalmente, dopo le delusioni delle inaugurazioni delle ultime settimane, ho visto delle mostre interessanti e professionali, e non la solita pittura-esercizio-effetto-vendita facile che avevo visto poco tempo fa. Ciò che mi piace qui a New York è che si vede di tutto, e si vede anche tantissima qualità, e ci sono così tanti posti che ti sembra che tutti siano sempre ben disposti a considerare nuove proposte se ben fatte (cosa peraltro che è così). Da noi il senso di staticità è insopportabile ed è una delle cose che più mi opprime. Giorni addietro ho visto delle ottime mostre anche alla Location One a all’Artist’s Space in Soho, due spazi di ricerca e avanguardia molto conosciuti. E mi è piaciuta moltissimo anche una mostra alla Drawing Gallery, sempre a Soho che esponeva i lavori degli artisti ispirati ai loro ‘jobs’ per sopravvivere. Al contrario del nome della galleria non c’erano soltanto disegni, ma tutti i media, con particolare attenzione per il video.

 

Sono molto emozionata poiché domani mi incontrerò col famosissimo performer Tehching Hsieh, quello delle One Year Performance, di cui avevo visto la mostra al Moma l’anno scorso e con cui sono in contatto per e-mail. Ah, altra cosa interessante della settimana è che sono andata a fare un corso di yoga in un posto che si chiama Yoga to the people: tu vai lì quando vuoi, il giorno che vuoi, e partecipi al corso – ce ne sono dalle 7 di mattina alle 9 di sera in continuazione – pagando una piccola offerta. Eravamo in metà di mille (c’era anche una che aveva credo almeno una cinquantina di interventi di chirurgia estetica tra le labbra gli zigomi gli occhi le sopracciglia le tette le natiche ecc … lo dico perché era così eccessiva – o… eccessivo? – che sembrava un cartoon dei fumetti, e se ve lo racconto è perché anch’io, che sono tollerante e aperta per natura, mi sono quasi scandalizzata …), coi tappetini uno vicino all’altro, e quando è cominciata la lezione era una corsa infinita, un ritmo pazzesco. Anche lo yoga era energetico e di corsa! New York non è certo una città che ti accarezza, ma che ti sferza continuamente, e volendo o nolendo la vita ti salta addosso, tranne quando sei così spompata che devi passare alcune ore a vegetare sennò non ti riprendi più. E questo lo fanno tutti, sono così presi che anche telefonare alle persone è un’impresa, perché nessuno risponde più al telefono, piazzano la segreteria e quando emergono dall’apnea – da lavoro o da ripompamento che sia – chiamano, trovando a loro volta le segreterie degli altri, in un cerchio infinito e a volte grottesco. Questa storia è anche nata dal fatto che qui il cellulare si paga sia per chiamare che per essere chiamati. Ossia i minuti vengono contati come conversazione, indipendentemente da chi chiama o riceve. E così nessuno vuole parlare più del necessario. Ora però fortunatamente ci sono quei piani tariffari tutto compreso, e pure molto convenienti, come quello che ho io che per 30 dollari al mese ho 1500 minuti di conversazione e sms.